NATO Secretary General Jens Stoltenberg launched his outline for NATO 2030 in an online conversation with the Atlantic Council and the German Marshall Fund of the United States

Serve ancora la NATO?

“La Nato è in morte cerebrale”. Così si esprimeva lo scorso 7 novembre il presidente francese Emmanuel Macron. Una dichiarazione che può essere letta come la volontà di creare un’Unione Europea autonoma e libera dalla paternalista presenza degli Stati Uniti, magari dotata di un proprio esercito.
Per capire se l’Alleanza Atlantica abbia ancora senso di esistere o sia da dichiarare “morta” bisogna partire da molto lontano e ripercorrere le tappe fondamentali della sua storia.

La fondazione

L’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord venne istituita a Washington il 4 aprile 1949 da 12 paesi, tra cui anche l’Italia, e si poneva due obiettivi: garantire la pace in Europa e fornire al blocco capitalista uno strumento in grado di contrastare un eventuale attacco dell’Unione Sovietica. L’articolo 5 del trattato istitutivo imponeva ai membri la cosiddetta “difesa collettiva”. In sostanza, gli stati membri avrebbero reagito collettivamente, anche attraverso l’uso della forza, all’attacco armato contro uno di essi. Grazie al mancato scontro frontale tra URSS e membri dell’Alleanza l’articolo 5 non venne mai utilizzato e la NATO non condusse operazioni militari durante la guerra fredda.

La fine della guerra fredda

Per la NATO la fine della guerra fredda non rappresentò “la fine della Storia” bensì il suo inizio. L’istituzione dell’Unione Europea nel 1992 garantiva una “pace perpetua” nel Vecchio Continente mentre la fine del Patto di Varsavia e la definitiva dissoluzione dell’URSS nel 1991 avevano già eliminato il rischio di un attacco sovietico. In poco tempo le basi dell’esistenza dell’Alleanza scomparvero. I suoi membri decisero allora di elaborare un “nuovo concetto strategico” che considerava più pericolosi i rischi derivanti da crisi e rivalità etniche nei paesi dell’Europa centrale e orientale. Rimarcando il suo ruolo di “autodifesa”, l’Alleanza si poneva, adesso, l’obiettivo di intervenire per “mantenere o ripristinare l’integrità territoriale delle nazioni alleate e porre rapidamente fine alla guerra”.

Fu su queste basi che avviò la sua prima missione nell’agosto 1995, l’operazione Deliberate Force, in Bosnia-Erzegovina, paese non membro, contro le truppe serbo-bosniache. L’operazione era stata autorizzata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sulla base del capitolo 7 del Trattato dell’Alleanza. L’intervento, fortemente criticato anche per l’utilizzo di uranio impoverito, aveva l’obiettivo di interrompere la pulizia etnica operata dai serbi e costringerli a sedersi al tavolo delle trattative che portarono, nel dicembre 1995, agli Accordi di Dayton.

Il 12 marzo 1999 l’Alleanza aprì le porte a tre paesi ex-comunisti: Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria. In tal modo, venne eliminata qualsiasi velleità di un ritorno dell’espansionismo russo. Appena due settimane dopo l’allargamento, la NATO decise di avviare quella che rappresenta forse la sua missione più controversa sul piano della legittimità, l’Operazione Allied Force, contro la Serbia di Slobodan Milošević. Per giustificare i bombardamenti verso un paese che non era in guerra con un membro dell’Alleanza, venne aggiornato il “nuovo concetto strategico” introducendo la possibilità di svolgere “operazioni d’intervento in caso di crisi non previste dall’articolo 5”. Se da un lato l’intervento riuscì a fermare una nuova pulizia etnica da parte dell’esercito serbo, come accaduto in Bosnia pochi anni prima, dall’altro le bombe della NATO non risparmiarono i civili e le infrastrutture provocando danni per decine di miliardi di dollari. Il mantenimento della pace in Kosovo rimane tutt’oggi garantita dalle truppe NATO presenti sul campo con la missione KFOR (Kosovo Force). Una stabilità militare a cui però non ha ancora fatto seguito, per colpe imputabili a tutta la comunità internazionale e agli stessi governi serbi e kosovari, una piena stabilità politica.

Dopo l’11 settembre

L’attentato alle Torri Gemelle rappresentò un altro spartiacque per l’Alleanza, sempre più “americanizzata”. Per la prima volta l’allora presidente americano George W. Bush decise di invocare l’articolo 5 e lanciare la cosiddetta “guerra al terrore”. Dopo l’invasione statunitense dell’Afghanistan nell’ottobre 2001, la NATO assunse dal 2003 al 2014 il comando dell’operazione International Security Assistance Force (ISAF), sostituita nel 2015 dalla missione Resolute Support. Quello afgano può esser considerato senza troppi dubbi il più grande fallimento nella storia dell’Alleanza e ha avuto come unico effetto quello di creare centinaia di migliaia di profughi fallendo completamente l’obiettivo di liberare il paese dai talebani e di portare “pace e democrazia”.

Nella lista dei fallimenti va inserito anche quello in Libia del 2011. A marzo di quell’anno la NATO unificò, nella missione Unified Protector, le azioni portate avanti in ordine sparso da alcuni suoi membri. L’operazione, nata per far rispettare l’embargo e il divieto di sorvolo in territorio libico, si concluse solo nell’ottobre 2011 con l’uccisione da parte dei ribelli del leader libico Mu’ammar Gheddafi, al potere dal 1969. A guardare l’attuale scenario libico non sembra che l’intervento NATO sia stato risolutivo né che abbia contribuito a pacificare il paese.

Il nuovo millennio si caratterizzò, però, anche per una significativa politica di allargamento ai restanti paesi dell’Europa Sud-Orientale conclusasi, al momento, con l’adesione della Macedonia del Nord nel marzo di quest’anno, portando a 30 il numero di stati membri. Il 12 giugno 2020 l’Alleanza ha inoltre riconosciuto l’Ucraina come Enhanced Opportunities Partner aumentando ulteriormente la possibilità di contribuire alle operazioni NATO e alla cooperazione con gli alleati.

NATO 2030

In un discorso pronunciato l’8 giugno, il segretario generale Jens Stoltenberg ha sottolineato come la Cina abbia spostato gli equilibri internazionali rappresentando un competitor a livello globale. La preoccupazione principale rimane però la Russia, la cui costante attività militare rappresenta, almeno per gli Stati Uniti, una vera e propria minaccia. Particolare, ad esempio, il caso del cosiddetto Suwalki Gap, un confine di 100 km tra Polonia e Lituania che separa la Bielorussia, alleata di Mosca, dall’enclave russa di Kaliningrad, considerato il punto debole della NATO in Europa. Sfiducia verso la Russia non sempre condivisa da tutti gli alleati europei che, seppur partecipi delle sanzioni contro il Cremlino, mostrano tra loro interessi diversi. Se la competizione militare di Russia e Cina sia stimolata dalla presenza della NATO o sia vero l’esatto contrario rappresenta un vero e proprio dubbio amletico impossibile da risolvere.

Nel presentare la NATO del prossimo decennio, Stoltenberg ha inoltre parlato dell’esigenza di un’Alleanza più forte militarmente e più unita politicamente. Per raggiungere questi obiettivi è necessario continuare a investire nelle forze armate e rafforzare i legami tra Europa e Stati Uniti.

E’ tempo di cambiare

Con la scomparsa dell’URSS e la progressiva egemonizzazione statunitense, la NATO si è trasformata in un’alleanza offensiva, non sempre legittima sul piano del diritto e dai risultati più che dubbi. Il suo approccio militarista alle principali sfide globali, fino a poco tempo fa sostenuto dall’incontrastata supremazia Usa, sembra ormai appartenere al passato. Le sue azioni, celate il più delle volte da interventi umanitari, hanno prodotto ulteriori divisioni tra gli stati. Al di là del suo ruolo geopolitico, su cui i membri dovrebbero aprire una franca e coraggiosa discussione, ci sono una serie di questioni che non possono essere sottovalutate.

Innanzitutto, quello che sembra più assurdo è l’esistenza stessa di un’organizzazione internazionale militare che difenda gli interessi del Nord del mondo. Lo stesso Nord che ha imposto un modello, quello neoliberista, che oggi mostra tutti i suoi limiti, lasciando il Sud in una condizione di perenne subalternità e dipendenza e creando, persino al proprio interno, profonde diseguaglianze e discriminazioni. Per non parlare poi delle spese necessarie al suo mantenimento. L’Alleanza impone ai membri di spendere il 2% del proprio PIL nella difesa. I paesi europei spendono mediamente “appena” l’1,5%. Questo significa che, in un periodo di recessione economica, molti stati dovrebbero aumentare ulteriormente la loro spesa militare. Una nuova corsa agli armamenti di cui non si sente la necessità.

Per tutti questi motivi bisognerebbe avere il coraggio di dirsi che no, la NATO non ha più senso di esistere e che la pace e la stabilità dovrebbero esser raggiunti con altri strumenti. Un’eventuale fine della NATO non aiuterebbe certo a raggiungere di colpo la pace nel mondo ma dovrebbe essere accompagnata da una progressiva smilitarizzazione a livello globale e da un radicale cambio di prospettiva alle questioni della sicurezza. Per ridurre il “senso di accerchiamento” e lo scontro tra grandi potenze si potrebbero impiegare le risorse per rafforzare l’ONU, da tempo progressivamente indebolita, con lo scopo di supportare la cooperazione e lo sviluppo di relazioni amichevoli tra le nazioni come già previsto dalla sua Carta.

Foto: NATO

Chi è Marco Siragusa

Nato a Palermo nel 1989, ha svolto un dottorato all'Università di Napoli "L'Orientale" con un progetto sulla transizione serba dalla fine della Jugoslavia socialista al processo di adesione all'UE.

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