SERBIA: Obrenovac, il giorno dopo l'alluvione. Testimonianza e fotoreportage

Si chiedevano: “sì, sto bene!”. L’emergenza è ormai finita. Non sono io a dirlo, ma lo stesso governo che giovedì 15 maggio proclamava lo stato di emergenza a seguito delle piogge torrenziali che da giorni avevano colpito la regioneinsieme a Croazia e Bosnia-Erzegovina – e che ha ritirato lo scorso venerdì, dopo che tre giorni di lutto sono stati indetti per ossequiare le vittime dell’alluvione, 51 accertate fino ad ora.

Rimangono solo i sacchi di sabbia lungo la Sava. Il livello delle acque ha iniziato a scendere ma il fiume fa ancora paura. La situazione in città è tornata lentamente alla normalità, dopo che nelle scorse settimane aveva visto l’enorme e pronta risposta di migliaia di cittadini all’emergenza. La rete di solidarietà, promossa inizialmente e principalmente sui social network, si era poi allargata alla società reale. Scuole, università, sedi di associazioni e partiti sono prontamente diventate centri di raccolta per materiali e beni di prima necessità da inviare alle zone più colpite dall’alluvione. Oggi all’università non c’è più nessuno, né in fila davanti ai banchetti della solidarietà né a smistare i materiali e caricare gli scatoloni sui furgoni. A dire il vero non ci sono neanche più gli stessi banchetti. Anche l’ultimo carico di materiali è stato inviato. La gente lentamente si disperde, torna ai propri pensieri. Così come tutto era iniziato, tutto termina, spontaneamente. Nessun ordine, nessuna obbligazione se non quella che uno sente volontariamente nei confronti del uomo (certo oleata con una buona dose di patriottismo).

Gli uomini sono tornati dal fronte,  Obrenovac, Krupanj, Sabac, che li avevi visti impegnati giorno e notte per evitare la catastrofe – nell’area si concentrano la più grande centrale termo-eletterica del pease nonché il complesso chimico industriale di “Zorka Sabac”. Solo in pochi rimangono: arditi, stakanovisti, uomini della croce rossa e della protezione civile, chi ha perso tutto e non avrebbe ugualmente dove andare. Tutti hanno fatto il possibile, chi più, chi meno, chi per nobiltà d’animo, chi per prestigio, chi per puro interesse mediatico. Ma la sostanza non cambia: la solidarietà. Quella solidarietà che sempre tanto ci impressiona perché non siamo più abituati ad essa, e abbiamo bisogno di catastrofi per misurare. Se da un lato i cittadini sono stati solidali, critiche non sono mancate all’operato del governo, sulla disorganizzata e tarda attuazione della legge sulle situazioni di emergenza. Critiche che sono state prontamente messe a tacere dalla censura di stato, legittimata dalla crisi in corso, il che apre interrogativi sulle derive autoritarie di un potere esecutivo, fortemente personalizzato e che non ha, dentro quanto fuori dal Parlamento, pressochè opposizione. La macchina statale si è mossa in ritardo, lo stato di emergenza è stato dichiarato quando era già troppo tardi. Se per molti paesi di montagna a ridosso dei fiumi poco si sarebbe comunque potuto fare, è vero il contrario per la città di Obrenovac, situata in pianura, a pochi chilometri di distanza da Belgrado, dove la maggior parte delle morti sono avvenute. Già Obrenovac.

A soli 33 chilometri da Belgrado, stretta tra i fiumi Sava e Kolubara, si erge il comune di Obrenovac, poco più di 70.000 abitanti, la maggior parte dei quali evacuati durante le alluvioni. La città è diventata il simbolo della tragedia. Ora che l’acqua ha iniziato a ritirarsi, cosa è rimasto?

Enormi vasche d’acqua si aprono tutt’intorno, ai lati della carreggiata, mano a mano che ci avviciniamo alla città. L’acqua ha invaso tutto: campi, strade, case, interi villaggi. Costeggiamo per una manciata di chilometri la Sava: imponente, fangosa, calma. È difficile immaginare come quella massa d’acqua, ora così tranquilla, possa trasformarsi in poche ore in una macchina mortale. Le rive sono state ridisegnate dalle piene dei giorni scorsi: le barche alla fonda, già provate dal tempo, sono state affondate o spazzate via dalla furia dell’acqua. Gli argini sono stati alzati di mezzo metro in più punti, nelle parti più depresse arrivano anche a toccare il metro: lì dove il ciglio della strada sfiora il livello del fiume. Lasciamo la Sava solo per ritrovarci, poco più avanti, sulla Kolubara, la sorgente del disastro. Entriamo a Obrenovac dal ponte che attraversa il fiume. Sotto, più che un fiume quello sembra un enorme mare di fango, quasi immobile, che ingloba ogni tipo di detriti al suo interno. Le pompe, decine, addossate sull’argine, drenano l’acqua dalle vaste aree allagate, indietro, nel fiume che le ha vomitate. Una pozza d’acqua, benvenuti a Obrenovac.

Scendiamo all’Hotel Green, che per la posizione strategica è stato trasformato nel centro logistico per i soccorsi. Croce rossa, protezione civile, esercito, volontari, membri del governo, tutto passa da lì. Il centro cittadino è stato parzialmente riaperto per permettere agli abitanti di ritornare. Obrenovac non affoga più. A poche decine di metri, lo stadio galleggia su quello che un tempo era un parco ed oggi è un lago. La città è salva. Sì, ma a quale prezzo!

Dai patii interni delle case, appena abbandonata la via principale, quelli che si scorgano non sono fiumi. Lì, l’acqua non c’è mai stata. Erano un parcheggio, una strada, un parco, una casa. Quando le sirene sono scattate, venerdì 16 maggio alle 5.00, molte di queste aree erano già sott’acqua. Si è presa tutto, senza risparmiare alcunché: case, negozi, amministrazioni comunali, ospedali, scuole. D’altronde, le catastrofi non hanno discriminanti, non fanno differenze di genere, età, o classe, non hanno pietà. Si prendono tutto ciò uno possiede, a volte persino la vita stessa. Una tragedia prevedibile dicono in molti, ora, che l’acqua si è ritirata ed i morti sono stati sepolti. Puntano il dito verso il governo, che lo punta verso le amministrazioni comunali, che dicono di non avere colpa perché la responsabilità di avvisare era del governo centrale. Ma ora, che l’acqua se n’è andata con tutto ciò che si possedeva, che differenza fa?

Le strade rimangono chiuse al traffico, eccetto per i mezzi di soccorso; pattugliate giorno e notte dalla polizia per evitare sciacallaggi. Ma se anche fosse, è rimasto ben poco da prendere. Molti abitanti sono tornati solo per vedere che alla tragedia dell’acqua, ora segue quella del fango, dell’umidità che ha impregnato ogni cosa, che incrina legno, pareti, anima. Accumulati ai lati delle strade, intere case senza pareti giacciono: ciò che si è potuto salvare ma soprattutto ciò che non si è salvato. La disperazione ha già fatto il suo corso; di acqua e lacrime già ne sono scese in quantità. Ci si rimbocca le maniche e si lavora, giorno e notte, per ripulire. Per provare a rincominciare.

Passo a fianco ad interi arredamenti per cucine, bagni, salotti. Giungo a quella che un tempo doveva essere stata una strada. Ora restano solo segnali stradali a mezz’asta e niente più. Molte zone come questa restano tuttavia inagibili, lasciate a marcire. L’acqua emana un puzzo insostenibile, quasi nauseabondo. Ristagna. Il caldo poi, non aiuta. Ora c’è il rischio di diffusione di malattie. Giardini di case un tempo ben curati lasciano spazio ad acquitrini fangosi e maleodoranti. C’è ancora molto da fare. Ripetono. Il governo gli aiuterà. Sperano. Certo è che i principali servizi idrici, fognari, ed elettrici sono ancora fuori uso e nessuno sa quanto tempo ci vorrà per rimetterli in funzione. La croce rossa ha adibito cisterne per l’acqua potabile; bagni chimici sono stati posizionati qua è là. Un ragazzo con un piccolo banchetto connesso ad un pannello fotovoltaico ricarica le batterie dei cellulari. Tutt’intorno, desolazione.

Si cerca di tornare alla normalità e ci si prepara alla notte. Oggi il tempo ha dato una tregua, domani chissà. La paura resta alta, così come il livello dell’acqua. Il rischio esiste. Non servirebbe a niente nasconderlo a se stessi, tantomeno alla popolazione.

Torno dove sono arrivato. L’autobus che mi riporterà a casa è pieno di uomini, donne e bambini che ritornano in uno dei tanti luoghi nella capitale adibiti a rifugi. Passaranno là la notte, l’ennesima. Un cartello ci augura Buon Viaggio. Mi strappa un sorriso ironico, l’unico della giornata. Mi lascio Obrenovac alle spalle, i suoi campi di fango, le sue strade allagate, la tragedia in tutte le sue espressioni. Oltrepasso nuovamente la Kolubara; un ultimo sguardo. Pregherei se sapessi come fare. Invece bestemmio. Neanche mi trattengo, esce facile e naturale.

Foto di Giovanni Bottari:

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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