Il futuro dei Balcani è una nuova Jugoslavia?

La Jugoslavia, lo sappiamo tutti, è andata in pezzi con le guerre che l’hanno insanguinata tra il 1991 e il 1999, ma quella che è caduta è stata una “forma” della Jugoslavia, quella socialista, che nella rovina si è portata via l’idea di Jugoslavia, cioè di uno stato comune per gli slavi del sud che durava dal 1919. L’idea jugoslava, portata avanti da intellettuali croati, sloveni e serbi, aveva lo scopo di creare uno spazio di sviluppo economico per gli slavi del sud, finalmente liberi dal dominio straniero all’indomani della Prima guerra mondiale. Era un’idea di emancipazione e di indipendenza. 

Oggi che esistono ben sette stati indipendenti in luogo della Jugoslavia, la domanda che viene spontanea è: sono davvero “indipendenti”? La loro politica economica, la loro politica estera, è davvero libera? I cittadini serbi, croati, sloveni, montenegrini, macedoni, kosovari, bosniaci, sono padroni del loro futuro?

Le politiche economiche, piacciano o no, non sono realmente in mano alle élites locali: queste aderiscono a modelli economici imposti dall’estero, privatizzano quando è loro detto di privatizzare (così da poter accedere ai prestiti internazionali), liberalizzano il mercato perché solo così potranno attrarre investimenti stranieri (perché di investimenti propri non sono in grado di farne), aderendo alle linee guida dell’Unione Europea che indirizza le scelte economiche dei paesi membri e di quelli che intendono diventarlo. E’ indipendenza questa?

L’élite politica balcanica non ha brillato in questi anni e, in molti casi, è stata la stessa che fu responsabile di crimini di guerra. Quando non lo è stata, si è però distinta per una gestione mafiosa e clientelare del potere. In Serbia la presenza di Nikolic e Vucic è necessaria ai partner europei che li hanno appoggiati in cambio della rinuncia al Kosovo; in Bosnia è stata messa in piedi una “etnopoli” imbrigliata nella costituzione venuta fuori da Dayton. In Kosovo si trova la più grande base militare americana in Europa, difficile ritenere che la politica di Pristina possa essere libera. Si tratta di esempi, pur sommari, di come i paesi sorti dalle ceneri della Jugoslavia siano – direttamente o indirettamente – dipendenti dalle indicazioni politiche ed economiche di Unione Europea e Stati Uniti.  Questo può essere ritenuto un fatto positivo, per alcuni, o negativo per altri. Non è questo il punto.

Il punto è che i paesi dell’ex-Jugoslavia non sono davvero indipendenti. L’unico momento della storia in cui gli slavi del sud sono stati indipendenti è stato durante la Jugoslavia, poiché prima erano soggetti a potenze straniere e dopo… anche. L’utopia europeista di riunire gli slavi del sud entro i confini dell’UE sta naufragando nella crisi economica. L’idea jugoslava potrebbe tornare presto farsi sentire. Prima però bisognerà seppellire i fantasmi del passato, i ricordi della guerra fratricida, le rabbie e gli odi che quella guerra ha causato.

Una guerra che è stata il più grande imbroglio di cui gli slavi del sud sono stati vittima, mettendosi nel sacco da soli, obbedendo alle parole d’ordine del nazionalismo.

Tuttavia i motivi per cui la Jugoslavia è caduta sono molteplici e non di immediata lettura, specialmente dopo anni di “narrazioni” che hanno contribuito a diffondere pregiudizi e semplificazioni su quella tragica pagina di storia. Esiste una vulgata secondo la quale la Jugoslavia, venuta meno la forza carismatica di Tito, non avrebbe retto alle spinte centrifughe che sarebbero state sempre presenti in seno alla società. A questa chiave di lettura se ne associa un’altra, quella della “follia degli slavi del sud” che presero a spararsi tra vicini di casa: l’irrazionalità di genti orientali, di “levantini” ancora in stato selvatico, poiché quei “Balcani selvaggi” sono da sempre la “polveriera d’Europa”. Nessuna spiegazione delle cause, quindi, ma semplici pregiudizi: la Jugoslavia è caduta perché doveva cadere. Come se il destino delle nazioni fosse predeterminato, scritto dalla divinità della storia o insito nel clima o nel paesaggio.

Sono stereotipi duri a morire e, in certa misura, confermati dal corso della storia: oggi la Jugoslavia è frantumata in sette staterelli e proprio da quegli stati, dalla chiave di lettura storica che le leadership locali propongono per legittimarsi, dalle persone che a quei tragici eventi hanno partecipato, vittime o carnefici che fossero, viene la conferma: la Jugoslavia non poteva esistere. Gli slavi del sud non hanno mai voluto stare insieme, anzi essi sono popoli irriducibilmente diversi, inconciliabili. Tuttavia sappiamo che non è vero: le guerre jugoslave si potevano evitare e non furono il frutto di “odio atavico” ma di un inganno sapientemente inoculato al popolo da parte di élites criminali e corrotte cui nulla interessava dei propri paesi ma solo dei propri guadagni. SI LEGGA: La guerra in Jugoslavia si poteva evitare

A più di vent’anni dall’inizio delle guerre jugoslave quell’inganno è sotto gli occhi di tutti. Ammetterlo è ancora difficile e una reale presa di coscienza non è obiettivo delle élites politiche balcaniche. Ma il tempo darà i suoi frutti. E già se ne colgono i segni nella letteratura e nel cinema. L’idea jugoslava è sopravvissuta al crollo del socialismo e da essa si è distinta, essendo cosa diversa dalla nostalgia: essendo ipotesi di futuro.

Oggi l’idea jugoslava si declina nella mite idea di “jugosfera“, neologismo coniato da Tim Judah, giornalista dell’Economist. La “jugosfera” prende le mosse da un dato concreto: la cooperazione economica tra i paesi della ex-Jugoslavia non solo è necessaria, ma già è in atto. Piani per lo sviluppo di infrastrutture comuni, o nella cooperazione militare, sono già realtà. Ma la realtà dei fatti – ovvero che senza cooperazione quei paesi sono destinati alla più totale marginalità a livello economico internazionale – non sostituisce l’idea jugoslava che è, anzitutto, un’idea di indipendenza politica. La “jugosfera” è l’evidenza su cui si basa la necessità della “Jugoslavia” ma quest’ultima è un passaggio ulteriore di libertà politica. Una libertà osteggiata dai leader nazionali, che non intendono certo rinunciare al proprio orticello, e “non necessaria” secondo l’idea europeista che vede, nell’adesione all’UE, la ricomposizione de facto della Jugoslavia.

Il tema dell’adesione all’UE da parte dei paesi ex-jugoslavi è complesso. Se è evidente la bontà dell’intervento UE nello sviluppo di istituzioni maggiormente democratiche o nella lotta alla criminalità (che pervade anzitutto la politica), più controverso è il beneficio della partecipazione a un organismo che al momento presenta gravi squilibri interni, favorendo le economie dei paesi forti e obbligando all’applicazione di misure di austerità vietando qualsiasi possibilità di indebitamento, e quindi di crescita. E se l’UE impedisce la crescita, a rimetterci saranno i cittadini dei paesi più deboli. E chi c’è in Europa di più debole dei Balcani?

Di questo c’è ormai consapevolezza, specialmente nei più giovani. Ecco che allora l’idea jugoslava riprende corpo: essere uniti per contare di più, essere uniti per essere (di nuovo) sovrani. Al momento è forse solo un’idea presente nel mondo della cultura ma – quando cesseranno di ascoltare le retoriche dei vari capetti nazionali – è possibile che presto attecchisca anche tra i cittadini comuni. Gli slavi del sud sono stati realmente indipendenti solo con la Jugoslavia, anche se l’esperienza socialista non era forse il genere di indipendenza che tutti auspicavano. Ma la fine della Jugoslavia titina non è la morte della Jugoslavia. Oggi che la “nostalgia” per il passato comincia a fare il suo tempo, una nuova di generazione di jugoslavi è alle porte. Sarà la storia a decidere se quelle porte potranno aprirsi.

 

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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16 commenti

  1. Wolf MURMELSTEIN

    Storicamente Slovenia, Croazia, Nord Serbia (Bàcska) e Bosnia.Erzegovina erano parti dell’Impero Austro Ungarico e non avevano nulla in comune con Serbia, Macedonia, Montenefro e Kosovo. Si aggiungano le differenze religiose e il quadro è completo. Se poi si ricorda che la Casa Reale Serba – Greco Ortodossa -dal 1918 opprimeva Slovenia e Croazia cattoliche
    che poi nel 1941 si vendicarono si può pensare che giusto il regime titino poteva tenere insieme il paese.La Monarchia Austro Ungarica, tanto demonizzata nei libri di stroia e nella retorica partriotarda aveva un proprio ruolo ed era più tollerante degli stati successori. Da frifletterci.

    • storicamente, se guardiamo alla storia moderna, lei ha ragione. Ma se guardiamo un po’ più indietro vediamo che i primi “stati” slavi dei Balcani erano pagani. L’elemento religioso, cui fa riferimento, è decisamente sopravvalutato: solo nel 870 il cristianesimo entrò in Serbia, e fino al 1110 circa era di orientamento latino. Fu solo dopo lo scisma che Stefan Nemanja si pose sotto l’influenza bizantina. Eminentemente greco-ortodossa era solo la Macedonia, allora bulgara. La conversione croata fu, più o meno, dello stesso periodo di quella serba: la scelta del cristianesimo latino fu dovuta a ragioni politiche legate all’incalzare dei franchi in Pannonia (dove c’erano principi croati) e nell’Illirico. Fino al 1200 la popolazione rimase legata ai culti pagani sia nell’attuale Serbia che nell’attuale Croazia. Le tradizioni sociali e gli istituti famigliari sono rimasti gli stessi per entrambi ancora fino all’Ottocento. Insomma, non vedo grandi differenze “originarie”.

      Se andiamo un poco più indietro, prima della conversione al cristianesimo, vediamo che gli slavi che arrivarono nei Balcani erano un unico popolo, con un’unica lingua e una sola religione (pagana). Sono lo stesso popolo, che a loro piaccia o no. Hanno la stessa identica radice. Differiscono in qualche ramo: la religione appunto. Questa ha avuto un peso a livello politico, senz’altro. Ma quanto conta la religione nella vita privata degli ex-jugoslavi di oggi? Non vorremo credere che la ragione delle guerre degli anni Novanta sia la religione?

      L’opposizione storica cui lei fa riferimento nel periodo austro-ungarico è corretta ma io non li vedo divisi, anzi vedo gli slavi del sud uniti nella cattività. Quella austro-ungarica da un lato, quella ottomana dall’altro. La Serbia fu tributario ottomano dal 1817 al 1878. I popoli slavi sotto l’Impero asburgico non erano rappresentati, come non lo erano gli slavi di Bosnia Erzegovina e Macedonia sotto l’impero ottomano. In comune avevano i ceppi: anche da questo nasce lo jugoslavismo. Cordialmente

      Matteo

    • La Bosnia e l’Erzegovina sono state parte dell’impero ottomano per secoli assieme a serbia,montenegro e macedonia.
      La casa reale serba in che modo opprimeva gli altri popoli?

  2. Matteo…come la pensi che si puo scrivere che …una nuova generazioni di jugoslavi e alle porte…quando ex jugoslavia e finita perche lidea non ha funzionato,ma non lo avete capito ancora la lezione…ti dico solo una cosa come possono essere slavi i kosovari,che non hanno niente con i slavi,sono un altro popolo,parlano un altra lingue,sono un altro sangue…

    • caro Rifat

      ha ragione, per i kosovari il discorso può essere diverso. Credo che i kosovari si vedano meglio in un destino pan-albanese. Se li ho messi nel mucchio è perché, con gli altri popoli della ex-jugoslavia, anche i kosovari si trovano oggi a essere guidati da politici corrotti, incapaci quando non criminali, e i cittadini contano poco o niente. Gli staterelli nati dalla dissoluzione jugoslava non sono credibili e da soli non contano nulla, ma ha ragione a dire che i kosovari sono estranei all’idea jugoslava.

      Se scrivo che una nuova generazione di jugoslavi è alle porte è perché questo ho inteso, negli ultimi anni, parlando con le persone più giovani.

      Contesto che la Jugoslavia sia finita perché “l’idea non funzionava”. A non funzionare è stato il sistema socialista che non ha saputo riformarsi e ha aperto la strada a capi criminali che, per proprio tornaconto economico, hanno soffiato sul nazionalismo e sulla guerra. Il crollo della Jugoslavia socialista non è la fine dell’idea jugoslava.

      Se domani l’Italia si dividesse in due per l’ignoranza della gente e l’abilità di politici spregiudicati, ci sarebbero ancora molti a girare con il tricolore. Cade uno stato ma l’idea sopravvive.
      Grazie

      Matteo

  3. E…per chi slavo non è? Non è una questione da poco. Se quelle ungheresi, romene, italiane sono minoranze di piccolo conto, non lo è la popolazione albanese, che è maggioritaria nel Kosovo, è il 25% in Macedonia e ha piccole percentuali anche in Montenegro. Pur non essendo un paese slavo ma che, anzi, ci tiene a distinguersi, anche l’Albania, e con essa tutte le persone fuori dai confini del Paese delle Aquile che in essa si riconoscono, potrebbe e forse dovrebbe entrare a far parte di questa “Yugosfera”?

    • salve Alessio

      non lo so, non è un mio progetto politico, non sarò io a decidere ma le persone che vivono in quei paesi. Quel che ho scritto nasce dall’incontro con molte persone giovani che, negli ultimi anni, mi hanno fatto pensare che non sia impossibile in futuro una nuova “unione” degli slavi del sud. Certo non oggi.

      E’ chiaro che le minoranze che lei cita dovrebbero partecipare al processo, ma non ho idea di cosa ne pensino. Immagino che per una minoranza sia meglio vivere in un paese che non sia connotato dal particolarismo nazionalista. Quindi per un albanese di Macedonia, che teme la discriminazione politica, potrebbe essere più conveniente vivere in una “Jugoslavia” in cui ci sono altre minoranze. Essere una minoranza importante in un paese microscopico serve solo al conflitto sociale. Essere una minoranza fra minoranze potrebbe offrire maggiori garanzie di tutela e rappresentatività. Per il Kosovo non è, credo, immaginabile una adesione all’idea jugoslava, non mi risulta sia di alcun interesse nel paese. Cordialmente

      Matteo

  4. Una crescita ” a debito ” è l’ultima cosa che serve. Un debito pubblico elevato – oltre il 90% del PIL – secondo economisti qualificati danneggia l’economia. Ricordiamoci come il debito pubblico jugoslavo crebbe vertiginosamente dal 1960 al 1980 con un tasso annuale medio del +17,6%.
    In termini reali (convertendo il cambio paragonandolo a quello odierno) dal 1980 il debito dei paesi ex-jugoslavi è aumentato del 50%.
    http://www.miglioverde.eu/rajsic-economia-comunista-jugoslavia-tito/
    La soluzione per migliorare l’economia è attrarre investimenti esteri ma NON solo per produzioni a basso tasso di tecnologia e innovazione.
    Quindi bisogna fare di tutto per impedire la fuga dei cervelli e allo stesso tempo aumentare la natalità con politiche calcolate di welfare (sostenibile), altrimenti le pensioni diventeranno un miraggio.
    La crescita non si fa con il debito.

    • Filip Stefanović

      Alfio, forse non è aggiornato, ma ormai da quasi due anni è comprovato che il famoso paper degli “economisti qualificati” (Reinhart e Rogoff), che indicava al 90% il livello di debito pubblico oltre al quale la crescita non è fattibile, e sulla base del quale molte delle raccomandazioni di consolidamento fiscale in Europa si sono sino a qui basate, è stato dimostrato inequivocabilmente falso e tarato da errori algebrici anche molto grossolani. Cerchi pure su internet a proposito, all’epoca se ne è parlato per settimane su tutti i maggiori quotidiani mondiali, economici e non.

      Cordialmente

      • Francesco Nicoli

        forse è lei a non essere proprio informato.
        a livello empirico, anche se è vero che il paper originale di R & R ometteva alcuni paesi causando dati diversi, il risultato non cambia di molto: dall’83% di soglia del paper originale si passa al 96%. il paper RESTA corretto, è la soglia di debito che è stata rivista.

        a livello teorico, l’IMF ha ricostruito e validato il modello nel 2012.

        oltre a leggere i quotidiani le consiglio qualche rivista specialistica, perché sa, i quotidiani tendono a sparare mucchi di stronzate.

        • Filip Stefanović

          Francesco, se i quotidiani sparano mucchi di stronzate, pensi quante se ne leggono tra i commenti dei lettori, zeloti della verità più disinteressata.

          Ad ogni modo i problemi con l’argomento sono diversi, non da ultimo la relazione causale, foss’ anche comprovata la correlazione tra i due fenomeni. Lei dev’essere uno di quelli deĺl’austerità espansiva e compagnia. Auguri…

          Ah, e la ringrazio per i suggerimenti di lettura, non ho mai pensato di attingere a fonti accademiche, mi illumina d’immenso.

          Saluti!

          • Francesco Nicoli

            il suggerimento di lettura è proporzionato alle fonti citate. Lei scrive ” all’epoca se ne è parlato per settimane su tutti i maggiori quotidiani “, e io le ho risposto.

            E si, come tutti gli studi econometrici, R & R non è infallibile e ha dei problemi. NON quelli che ha citato lei nel primo commento però. Quelli sono quelli riportati dalla vulgata postkeynesiana in Italia, e sono falsi. i problemi sono altri, come dice dopo, direzione della causalità in primis- ma questo è vero per praticamente qualsiasi studio econometrico che non usi IV piuttosto complesse.

          • Filip Stefanović

            Francesco, a infastidirmi e’ stata la spocchia e leggerezza nel dire che chi lei non conosce scrive “stronzate”.

            Per quanto riguarda i giornali, mi sembra lecito e corretto, per chi appunto non vive, come dice Matteo Zola, sulle torri eburnee dell’accademia, non indicare fonti specializzate per chi non ha accesso a biblioteche economiche o database EBSCO (la maggior parte della popolazione che e’ LECITAMENTE interessata a temi economici senza necessariamente sapere cosa sia anche una semplice regressione OLS) ma bensi’ quotidiani ad ampia diffusione. Inoltre, se la stampa italiana le fa tanto schifo, almeno mi citi in virgolettato per quanto ho davvero scritto, ossia ” su tutti i maggiori quotidiani mondiali, economici e non”. Se Repubblica non le sembra adeguata, un Financial Times o un Economist potranno piacerle di piu’, e non hanno scritto di meno sull’argomento.

            Per la fondatezza poi dell’argomento, e’ gia’ venuto abbastanza a noia per cui non ci sara’ bisogno di sviscerarlo ulteriormente. La correzione che indica (dall’83 al 96%) e’ talmente ridicola da essere risibile, prima ancora dell’econometria (che rispetto ma che e’ quasi sempre un esercizio complesso e fine a se stesso, perche’ come lei dice puo’ dimostrare quasi tutto e il suo contrario, basta cercare il panel piu’ appropriato per i propri conti), e’ il processo logico a essere triviale: quanto poco di dice legare il LIVELLO del debito pubblico alla crescita del pil?

            E visto che cita l’IMF del 2012 (precedente, appunto, lo “scandalo” di R&R), le propongo un altro lavoro, sempre dell’IMF e del 2014 che dice esattamente l’opposto: http://www.imf.org/external/pubs/ft/wp/2014/wp1434.pdf

            Questo a conferma che, di nuovo come scrive Zola, l’economia e’ una disciplina, e non una scienza pura inquadrabile da quattro equazioni differenziali in un modello DSGE. Ma non vorrei scandalizzarla con bestemmie postkeynesiane.

        • Egr. Francesco

          francamente non capisco cosa spinge a scrivere commenti come il suo. Non entro nel merito della questione, che non conosco (immagino che lei, come il nostro Filip, abbia una formazione economica). Conosco però come si fanno i paper, gli studi, le ricerche, e in economia il metodo scientifico non è mai applicato. Non si tenta, cioè, di confutare una teoria finché non è irrevocabilmente vera, ma si cerca di difenderla e dimostrarla evitando di renderla confutabile. E’ questo l’atteggiamento tipico delle scienze umane, quale è l’economia. E le scienze umane sono fallibili, sovente opinabili. E la passione per la matematica dei moderni economisti, “la malattia dell’infanzia” come la definiva Keynes, è il frutto della consapevolezza di questa fallibilità.

          Questo per dire che spesso “mucchi di stronzate” si leggono anche nei paper accademici. Ed è assai più grave che leggerlo sui giornali i quali, necessariamente, svolgono un lavoro di semplificazione. Perché sa, quelle stronzate sono necessarie alla democrazia in un paese dove solo il 22% della popolazione ha una laurea: i giornali semplificano e rendono fruibili a molti (se non a tutti) informazioni complesse. Le persone di cultura superiore, che con spocchia impareggiabile guardano dall’alto in basso i giornali (questo, dove commenta, è un giornale…), possono continuare a leggere le verità dei paper accademici lasciando in pace noi poveri sfigati che leggiamo, e scriviamo, sui giornali.

          Con viva speranza di non rileggerla

          Matteo

          • Francesco Nicoli

            Caro Matteo,

            Purtroppo, le cose non stanno esattamente cosi. Il livello di semplificazione raggiunto dai quotidiani in Italia va molto oltre le necessità di istruire una popolazione ignorante su temi difficili. Il problema è quando il Quotidiano diventa espressione di quella stessa ignoranza, e accade sempre più frequentemente.
            Uno esempio su tutti? I tweets di Repubblica su Philiae “atterrato sulla Stella Cometa”.
            A me sta benissimo che uno si informi su temi squisitamente accademici sui quotidiani nazionali, però è ovvio (o almeno, per me sembra ovvio) che quando (spessissimo) questi sbagliano, travisano, confondondo, o semplicemente non capiscono quello che riportano, gli altri si innervosiscano.

            Vorrei vedere lei, se fosse un fisico, a dover discutere con qualcuno che sostiene “le comete sono stelle, lo ha detto Repubblica (o Studio Aperto)”.

  5. Francesco Nicoli

    la creazione di una nuova jugoslavia viene qui proposta come alternativa all’Unione Europea.

    da tempo invece sostengo che ne il complemento ideale, per varie ragioni.

    1) l’Unione Europea richiede, come condizione all’accesso, aver sanato le diatribe con i vicini. presentarsi come una confederazione risolve il problema.
    2) accedere in momenti diversi, magari anche molto distanziati nel tempo, produce squilibri; accedere come confederazione permette l’accesso simultaneo.
    3) l’Unione Europea non è affatto preparata, istituzionalmente, all’accesso di sette diversi paesi, per quanto piccoli. invece potrebbe gestire senza problemi nelle istituzioni attuale l’accesso di un solo grande paese.
    4) il peso economico, politico e decisionale di una confederazione jugoslava all’interno delle istituzioni Europee sarebbe tutt’altro che irrilevante- parleremmo dell’ottavo paese dell’unione come popolazione, e uno dei più grandi territorialmente.
    5) l’inserimento di una confederazione jugoslava nel processo di integrazione europea darebbe grande credibilità internazionale al progetto, fungendo da magnete per investimenti che altrimenti farebbero fatica ad arrivare.

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