Il futuro perduto dei cristiano-siriaci in Turchia

Murat accoglie gli intervistatori offrendo del çay – il famoso tè turco – nei tradizionali bicchieri a forma di tulipano, come si usa fare in questo angolo di mondo. E’ uno dei tanti turchi emigrati in Svizzera ed ogni anno torna nel sud-est anatolico, sua terra natale, per trascorrere alcuni mesi assieme alla famiglia.

All’apparenza ci troviamo davanti al più tipico quadro familiare di gurbetçi, ovvero turchi emigrati nell’Europa occidentale che tornano con regolarità in quello che continuano a considerare, anche dopo generazioni, il loro vero paese.

Quella che Matteo Spicuglia e Stefano Rogliatti ci vogliono raccontare con il loro documentario Shlomo. La terra perduta, non è però una normale vicenda di emigrazione e ritorno, perché la storia di Murat e della sua famiglia non è una storia come le altre. Murat appartiene alla più antica tra le Chiese cristiane, quella siriaco-ortodossa, che affonda le sue radici nella predicazione di Pietro ad Antiochia.

I cristiani siriaci – detti anche aramei e generalmente chiamati in turco Süryani – adottano tutt’oggi una dottrina teologica monofisita, e utilizzano l’aramaico come lingua liturgica. Una parte di essi utilizza quotidianamente, accanto al turco e alle lingue nazionali degli altri stati in cui risiedono, un dialetto, detto suroyo, anch’esso derivato dall’antica lingua aramaica.

Il luogo in cui essi hanno tradizionalmente vissuto, chiamato in aramaico Tur Abdin, si trova nella Turchia orientale, a ridosso del confine con la Siria, nei dintorni della città di Midiyat, dove sorge il monastero di Mor Gabriel, il loro principale centro culturale e religioso. Al tempo della fondazione della repubblica turca, lì vivevano 200.000 aramei, ma la politica ostile alle minoranze portata avanti dallo stato turco, unita all’oggettiva povertà di queste terre e ai frequenti scontri inter-etnici con le tribù curde, ha cambiato drasticamente la situazione demografica della regione. Interi villaggi e quartieri sono stati spopolati dall’emigrazione verso Istanbul e i paesi dell’Europa occidentale. Dei 17.000 cristiani siriaci che vivono ancora oggi in Turchia, 15.000 risiedono ad Istanbul: nel Tur Abdin non ne sono rimasti che 2.000.

Senza la forza creatrice di una cultura in grado di plasmarla, la terra diventa un luogo senza anima ed identità, e anche un popolo che ha perso la sua terra, tende lentamente ed inesorabilmente a perdere la propria cultura. Gli aramei non hanno però dimenticato la patria d’origine, non hanno voluto né potuto voltare pagina, e oggi c’è chi pensa ad un ritorno. Incoraggiati dalle timide aperture della nuova classe politica turca, i cristiani siriaci cominciano lentamente a riprendere possesso della loro terra. Non si tratta ancora di un fenomeno generalizzato, ma rappresenta una tendenza con un forte valore simbolico.

Il problema più urgente da risolvere è il rapporto conflittuale con i curdi, da ricostruire percorrendo affiancati una strada comune che porti verso l’emancipazione e l’affermazione dei propri diritti.

Come ogni minoranza, gli aramei si trovano divisi tra due necessità contrapposte: da una parte la difesa della propria specificità, dall’altra la richiesta di una completa integrazione nella società nazionale di appartenenza. Per Johny Messo, presidente del World Council of Arameans, la cultura dei cristiani siriaci deve essere vista come parte integrante del patrimono culturale della Turchia. Gli aramei chiedono di essere riconosciuti come membri effettivi della nazione turca, ma proprio in quanto aramei, e non malgrado questo. Si chiede l’integrazione quindi, mentre si rifiuta con fermezza ogni forma di assimilazione.

Il cognome di Murat è Toprak, che in turco significa terra e riassume il destino della famiglia che lo porta: una terra perduta, ma che ora può essere riconquistata con la forza della cultura.

Foto:  Maarten Darske, Flikr

Chi è Carlo Pallard

Carlo Pallard è uno storico del pensiero politico. Nato a Torino il 30 aprile del 1988, nel 2014 ha ottenuto la laurea magistrale in storia presso l'Università della città natale. Le sue principali aree di interesse sono la Turchia, l'Europa orientale e l'Asia centrale. Nell’anno accademico 2016-2017 è stato titolare della borsa di studio «Manon Michels Einaudi» presso la Fondazione Luigi Einaudi di Torino. Attualmente è dottorando di ricerca in Mutamento Sociale e Politico presso l'Università degli Studi di Torino. Oltre all’italiano, conosce l’inglese e il turco.

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2 commenti

  1. Gli Aramei erano ovviamente già presenti in Anatolia prima dell’arrivo dei Turchi, durante il Medioevo. Sarebbe forse più corretto rivendicare una appartenenza alla “società” turca, allo “Stato” turco che non alla “Nazione” turca, che è un concetto squisitamente etnico e considerato proprio in questi termini dai Turchi etnici.
    Chissà da quale popolo antico discendono … Una delle meraviglie della Turchia è proprio questa ricchezza di popoli di origine diversissima, che hanno nei secoli adottato (più o meno volentieri …) la lingua turca e la religione islamica. Pensiamo solo alla straordinaria varietà antropologica degli anbitanti della Repubblica Turca ed avremo già un’idea della notevole diversità di origine dei popoli presenti nell’Anatolia classica.

  2. Caro Leonardo,

    purtroppo ti devo dare ragione sul modo in cui i “turchi etnici” (qualsiasi cosa voglia dire, perché è spesso più una costruzione culturale e ideologica che una realtà effettiva) intendono la propria nazione, ma voglio difendere lo stesso il termine che ho usato. L’ideologia turca dello stato nazionale è di tipo “sangue e suolo”, come ben sai: stato, nazione, lingua, religione, tutte queste cose vengono fatte coincidere a livello ideologico.
    Grazie a Dio però la realtà non è proprio così, e la Turchia è un paese come tutti gli altri, e non un monolite composto da 80 milioni di cugini di primo grado! Se non ci si limita soltanto a considerare le minoranze linguistiche o religiose “conclamate” (e spesso segregate) come i curdi, gli alevi e i cristiani di varie origini, e ci si domanda quanti tra quelli che consideriamo abitualmente “turchi” hanno almeno in parte origini turkmene, albanesi, circasse, slave, tatare, georgiane (in una città importante come Eskişehir le persone di origine tatara sono probabilmente la maggioranza per fare une esempio), allora si può capire come il concetto di “etnia” si possa confondere e dilatare fino ad esplodere e rivelarsi per la costruzione ideologica che è.
    Basti pensare che per il grande mübadele, lo scambio forzato di popolazione tra Grecia e Turchia, come discriminante fu scelta la religione perché era l’unico modo di poter distinguere oggettivamente le due “etnie”, con il paradosso che la maggioranza dei musulmani espulsi dalla Grecia non erano in realtà di origine turca, ma greca autoctona, e lo stesso vale per molti greco-ortodossi della Turchia, che soprattutto in Cappadocia e nel Karaman erano in grandissima parte turchi e turcofoni.

    I valdesi delle valli pinerolesi hanno una storia di segregazione che li ha resi loro malgrado più “puri” (culturalmente e “etnicamente”) di qualunque minoranza presente in Turchia, ma nessuno si sognerebbe di dire che non sono italiani. Così come per tutti è italiano l’ebreo sefardita Primo Levi.
    Se in Turchia qualcuno ha problemi nell’essere rappresentato da Can Bonomo (anch’egli ebreo sefardita) ad Eurovision e considera “stranieri” gli aramei, questo è un problema culturale da risolvere per vie molto più generali.

    Quindi non si tratta a mio avviso di integrare una minoranza piuttosto che un’altra nella società turca, quanto veramente di cambiare il modello ideologico di nazione presente oggi in Turchia per sostituirlo con un approccio che includa queste differenze.

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