Lech Wałęsa inciampa tra pezzi di muro. Ospite di Torino spiritualità, l’ex leader di Solidarność mostra le sue contraddizioni

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«Non ci sono ideali migliori di quelli della fede. Le minoranze, quelli che vogliono i diritti senza sposarsi, gli omosessuali, non devono ostacolarci. Non devono manifestare dove noi erigiamo i nostri altari». Lech Wałęsa, dietro ai baffoni bianchi spioventi, raccoglie applausi dal pubblico di Torino Spiritualità. Applausi quando afferma: «Nessuno può venire a casa mia e dirmi cosa devo fare». Così il vecchio leader di Solidarność, dopo aver aggirato le domande di Mario Calabresi, si abbandona a una retorica che l’inclito pubblico di Torino spiritualità sembra apprezzare. Parla stando dritto in piedi, arringando l’uditorio come fosse una folla di operai a Danzica. Le mani agitano parole e ricordi: «Avevamo duecentomila soldati sovietici in Polonia, e un milione alle frontiere. Non pensavamo possibile che il comunismo finisse. I leader europei dicevano: “solo la guerra nucleare farà cadere il regime” ma si sbagliavano. Un giorno un polacco è salito al soglio di Pietro, e quando venne in Polonia anche i comunisti si fecero il segno della croce».

Il sindacato Solidarność, fondato nel 1980 in seguito agli scioperi nei cantieri navali di Danzica, raccolse subito un alto numero di iscritti. In breve tempo divenne punto d’incontro di cattolici e anti-comunisti al punto che già nel 1981, in seguito alla legge marziale imposta dal generale Wojciech Jaruzelski, l’attività del sindacato fu sospesa e Wałęsa arrestato. Dopo un anno di carcere, nel 1983 l’attenzione del mondo si concentrò sulla Polonia quando all’operaio di Danzica fu assegnato il premio Nobel per la Pace. La narrazione di quei fatti, però, si accende oggi di accenti mistici: «Noi ci siamo accorti di Dio. Il Papa ci ha consegnato il Verbo e la nazione polacca ha trasformato il Verbo in carne». E di quella nazione, nel 1990, è diventato Presidente.

L’importanza dell’operato politico di Wałęsa resta di indiscutibile rilevanza nella storia del Novecento, egli contribuì di fatto all’unione dei popoli europei, prima divisi dalla cortina di ferro. In occasione delle scorse elezioni europee, però, Wałęsa si è legato a Libertas, un movimento anti-europeista fondato dal milionario irlandese Declan Ganley. Libertas, portando avanti una campagna concentrata sul rifiuto del Trattato di Lisbona, cercò di imporsi in quei paesi in cui le antipatie verso l’Unione erano maggiori e non esitò a definire l’Europa una “puttana” colpevole di essere troppo aperta nei confronti della Turchia. In Polonia Libertas ottenne l’appoggio della Lega delle Famiglie, partito di ultradestra cattolica accusato da più parti di antisemitismo. Ganley addirittura definì l’ex leader di Solidarność: “Il solo degno di essere presidente della Commissione Europea”. Interrogato in merito, Wałęsa allunga la mano come per allontanare da sé la domanda: «Queste sono insinuazioni calunniose, non intendo rispondere» ma, incalzato, eccolo uscire allo scoperto: «Non voglio un’Europa dove la fede è messa all’angolo, ridotta a questione privata. I valori veri devono essere le fondamenta del nuovo ordine continentale».

Gazeta Wyborcza, uno dei principali quotidiani polacchi, definì Wałęsa “un uomo pericoloso per sé e per gli altri, sensibile solo alle piaggerie dei parvenus della politica”. Una politica in cui l’operaio di Danzica sembra muoversi con goffo opportunismo ed eccessi auto-celebrativi: «Gorbacev ha voluto riformare il comunismo, ma ha perso. E per quella sconfitta ha ricevuto il premio Nobel per la Pace. Io l’ho ricevuto per una vittoria». E ancora: «Il comunismo a Cuba? È una zanzara che punge il naso all’America. Papa Wojtyla è stato anche lì, e la popolazione tutta si è commossa. Ma nessuno è stato in grado di tramutare il Verbo in carne, mancava l’uomo giusto». Non abbiamo alcun dubbio su chi fosse per Wałęsa il modello di questo “uomo giusto”.

Vent’anni fa Wałęsa ha conquistato con le sue battaglie un posto del tutto meritato nei libri di storia, ma sopravvivere alla propria gloria può avere effetti negativi. Oggi, forse, il favore più grande che gli possiamo fare è non ascoltarlo, ignorarlo. In fondo abbiamo un debito con quest’uomo che, contribuendo alla fine della guerra fredda, ha tramutato in realtà il sogno di un’Europa finalmente unita.

M.Z.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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