SERBIA: Un panettiere e l’interesse nazionale

Quanto la Serbia sia un paese socio-politicamente instabile lo si evince anche da quanto può accadere attorno a una panetteria. Da una settimana, la panetteria “Roma”, nel distretto belgradese di Borča, è sotto i riflettori per un episodio di intolleranza etnica, a cui è seguita solidarietà, altro odio e, indirettamente, una più ampia riflessione sull’interesse nazionale del paese – quello che ruota attorno alla questione del Kosovo.

I fatti

A fine aprile, sui social si diffonde una fotografia, risalente al 2017, che ritrae un ragazzo mentre fa il gesto dell’aquila albanese in centro a Belgrado – lo stesso gesto dell’esultanza dello svizzero di origini kosovare Xherdan Shaqiri in un gol ai mondiali contro la nazionale serba. Presto si viene a sapere che si tratterebbe del proprietario della panetteria Roma, Mon Gjuraj, un albanese del Kosovo. Sabato 27 aprile, vigilia della Pasqua ortodossa, alcune decine di nazionalisti si ritrovano davanti alla panetteria: assediano i dipendenti all’interno, cantano cori che inneggiano agli incendi delle moschee e lasciano un ricordo sull’auto del proprietario – una testa di maiale.
Quasi immediata la reazione di Gjuraj, che in un video pubblicato da Sofija Todorovic, giovane attivista per i diritti umani e residente di Borča, spiega che la persona nella foto non è lui, ma un suo cugino – che è stato prontamente licenziato. Mon Gjuraj, insomma, non c’entra niente. Eppure, sempre nello stesso video, si scusa, spiega di essere un onesto lavoratore, di vivere con la propria famiglia a Belgrado da otto anni e di considerare la Serbia il proprio paese, la propria casa.

L’indomani è Pasqua, la panetteria è chiusa, sulle sue vetrine sono rimasti decine di adesivi che rivendicano che il Kosovo è serbo. Il ministro degli Interni Nebojsa Stefanovic dichiara che l’intero caso è stato strumentalizzato politicamente, il raduno si è svolto pacificamente, senza incidenti, diversamente da quanto succede ai serbi che ancora vivono in Kosovo. Indirettamente, il ministro legittima l’attacco subito da Gjuraj.
Questi non viene però lasciato solo. Diverse organizzazioni della società civile, come l’Iniziativa dei giovani per i diritti umani – da anni impegnata nella riconciliazione nei Balcani –, condannano aspramente l’attacco a sfondo razziale e si schierano con il panettiere. Sui social si diffonde l’hashtag #NeDirajMiKomšiju (“giù le mani dal mio vicino di casa”).
Infine, come a rimarcare le proprie scuse, Gjuraj fa sapere che venerdì 3 maggio la sua pekara riaprirà offrendo gratuitamente i propri prodotti. Al “Burek di solidarietà” si presentano decine di attivisti, giornalisti e politici (tutti d’opposizione), ma anche molti cittadini e vicini di casa di Mon. “Sono una persona semplice, un lavoratore, voglio solo che viviamo in pace” – dichiara Gjuraj per l’emittente N1. Contemporaneamente, dall’altro lato della strada, un manipolo di estremisti si è nuovamente radunato per chiedere la chiusura della panetteria.

Un burek li seppellirà

Tutta questa faccenda ci dice diverse cose sulla società serba odierna. Innanzitutto che il sentimento nazionalista – in alcune persone – è ancora molto forte. Provando a fare lo sforzo di mettersi dall’altra parte, ci si interroga sulla logica di chi, in risposta a una foto vecchia di due anni, chiede la chiusura dell’attività di una persona che con quella fotografia non c’entra niente. Non sembra esserci altra risposta se non l’odio etnico. E di cosa si è scusato Gjuraj? Di avere un cugino ingenuo? Di essere albanese? Se davvero il Kosovo è Serbia, allora Gjuraj dovrebbe essere trattato e rispettato come tutti i suoi concittadini, considerato anche che con il suo lavoro contribuisce a mantenere i servizi pubblici della Serbia.

Le scuse di Gjuraj ci dicono piuttosto un’altra cosa: tutto ciò che è riconducibile al Kosovo è un tabù ostaggio della stessa retorica che da vent’anni non sa andare oltre i dogmi. Quei dogmi che vedono negli “šiptari” (dispregiativo con cui si identificano gli albanesi) il nemico, il responsabile per la perdita della culla della cultura serbo-ortodossa. Ma senza esame di coscienza o ammissioni di colpa. Una logica – quella dei difensori dell’ortodossia che festeggiano la Pasqua col lancio di teste di maiale – che, evidentemente, vede nell’incendio delle moschee la giusta risoluzione di un’annosa questione, che si è già fatta il pieno di violenze, guerre e bombardamenti. La dimostrazione, insomma, che il Kosovo rappresenta sì un interesse nazionale, ma sul quale nessun dialogo è mai stato affrontato, al netto di quanto vorrebbero dare a vedere le autorità di Belgrado.
Non stupisce quindi che la sacralità degli interessi nazionali sia rappresentata da un manipolo di ubriachi che a colpi di teste di maiale chiede la chiusura di una attività commerciale.

Per fortuna, però, Belgrado conserva ancora sacche di resistenza culturale, grazie alla quale ci si ricorda che fino a pochi anni fa le panetterie gestite da albanesi del Kosovo erano una realtà molto diffusa, la normalità, nonché una garanzia di qualità. La reazione dei vicini di Mon e dei tanti attivisti che si stanno spendendo in sua difesa è la dimostrazione che le persone vengono prima della loro nazionalità. Salendo di livello, è anche la dimostrazione della necessità di creare un confronto sociale sul cosiddetto interesse nazionale, e non permettere che questo sia monopolizzato dalla politica e da decennali frasi fatte.

Per concludere: il giorno in cui la pekara Roma distribuiva burek gratuiti, sul bancone c’era una scatola per le offerte per aiutare una bambina affetta da una grave malattia. L’immagine di un albanese sotto attacco da giorni che aiuta una bambina serba è l’ennesima reazione che delegittima chi si erige a difensore dell’interesse nazionale sulle logiche di terra e sangue. Un’immagine simbolica, che mette a tacere i nazionalismi, suggellata da un commento della madre della piccola: “Siamo nel ventunesimo secolo, è ora di mettere fine all’odio e provare tutti a vivere in pace”.

 

Foto: vignetta di Corax per Danas

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