di Filip Stefanović
Oggi è il giorno della carota, per la Serbia: la Commissione europea ha infatti ufficialmente concesso il proprio appoggio alla Serbia affinché ottenga lo status di paese candidato. Štefan Füle, Commissario europero per l’allargamento, ha dichiarato a Bruxelles nel pomeriggio: “Sulla base dei progressi conseguiti nelle riforme, nella cooperazione col Tribunale internazionale per l’ex-Jugoslavia, e la riconciliazione regionale, suggerisco di concedere alla Serbia lo status di Candidato supposto che la Serbia riprenda il dialogo col Kosovo e si attivi velocemente in merito alla messa in pratica degli accordi sinora raggiunti”. Un colpo al cerchio, uno alla botte.
Il presidente della Serbia Boris Tadić si è affrettato a dire di essere orgoglioso del successo odierno, a riprova che gli sforzi sinora compiuti dalla Serbia sono solidi e riconosciuti dalla comunità europea. In realtà, ora inizia la parte difficile: per l’UE, la concessione dello status di candidato non implica realmente alcun impegno concreto nel breve termine. Alla candidatura seguono le negoziazioni, che servono per concertare insieme all’Unione le riforme necessarie all’effettivo ingresso del paese candidato tra gli stati membri. La Croazia, ad esempio, ha iniziato tale procedimento nel 2005 e l’ha concluso solo quest’estate.
Inoltre, prima di ottenere la candidatura, per la quale l’approvazione della Commissione europea è comunque un passo indispensabile, la Serbia dovrà ottenere il consenso unanime di tutti i paesi membri, che si riuniranno per decidere a dicembre, quindi tra ben due mesi. Anche un solo veto da parte di un paese dell’UE può bloccare la candidatura. Sotto i riflettori ci sono la Germania, che dalla recente visita di Angela Merkel a Belgrado ha dimostrato di essere ferma e decisa nelle richieste di miglioramento delle relazioni serbo-kosovare (col conseguente riconoscimento dell’ex provincia serba da parte di Belgrado), e dell’Ungheria, che nelle ultime settimane soffre nelle relazioni con la Serbia, cause dello scontro la restituzione dei beni ungheresi confiscati dalla Jugoslavia dopo il 1945 (tema reso caldo della recente promulgazione, in settembre, di una legge sulla restituzione da parte del parlamento di Belgrado), e di certi attriti tra la popolazione serba della Vojvodina e la minoranza magiara.
Ci sono quindi otto settimane nelle quali la Serbia non dovrà compiere passi falsi, dimostrando di essere attivamente interessata alla rapida risoluzione della crisi kosovara. In che modo, non è dato sapere, vista l’attuale intransigenza del governo serbo nel riconoscere il Kosovo. Ma Tadić, adesso, non ha più modo di tergiversare: a seconda di come si risolverà la candidatura in dicembre, gli effetti sul consenso al Partito democratico di governo del presidente in carica, alle elezioni parlamentari del 2012, potranno risultare decisivi.
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