SERBIA: Gay pride, perché tanta importanza?

Gay pride, quid est?

Chiariamo bene una cosa. Quando si parla di gay pride serbo, non bisogna avere in mente un carnevale madrileno. Nessuna teoria infinita di carri allegorici, tantomeno piume di struzzo, o di pavone, ali d’angelo e slip aderenti. Così come non si sarebbero visti in piazza, accanto ai pacifici manifestanti, rappresentanti delle autorità, del Partito Democratico di governo o della città di Belgrado. Solo poliziotti, in numero cinque volte maggiore al forse migliaio di manifestanti raccolti, appena quanto basta per riempire un parco cittadino. Uomini e donne in abiti autunnali, e una modesta spilla rosa al bavero, qualche bandiera arcobaleno (con la scritta “PACE”, in italiano) diversi simpatizzanti, non solo appartenenti alla popolazione LGBT serba. Forze speciali di Gendarmeria in assetto antisommossa, veicoli blindati e un elicottero a sorvolare il centro, come nell’ottobre 2010. Un dispendio di forze di sicurezza decisamente sproporzionato all’entità dell’evento, eppure appena sufficiente per garantire l’incolumità fisica dei suoi partecipanti (l’anno scorso, oltre 140 poliziotti riportarono feriti di vario tipo, a seguito degli scontri con i violenti dell’estrema destra). E allora, in un simile contesto, avrebbe avuto senso intentare una marcia dell’orgoglio gay? Oppure, come suggerivano diversi moderati, rischiava di ridursi unicamente al cocciuto atto di una minoranza sessuale? Nella Serbia del 2011, le ragioni per indire una gay pride parade sono molte, e varie.

Ogni passo di quella passeggiata belgradese avrebbe avuto qualcosa da dire alla Serbia intera. Ad esempio, che essere omosessuali non è essere “froci”, e nemmeno “malati”. Perché l’omosessualità è una condizione naturale che si manifesta nelle stesse percentuali in Serbia, come in Russia, in Cina, in Olanda o negli Stati Uniti d’America, indipendentemente dallo stato d’integrazione e accettazione delle minoranze LGBT nei rispettivi paesi. Oppure che il coraggio per unirsi alla sfilata gay di questi serbi giovani e meno giovani, non differisce di molto dal coraggio che serve loro ogni giorno per scendere per le vie di Belgrado, o salire sui mezzi pubblici, o entrare in un locale notturno. Con lo stesso rischio di venire scansati, o peggio avvicinati per essere derisi, insultati, picchiati a morte; dover tenere nascosta la propria natura, per paura di perdere il posto di lavoro, e non venire riassunti. La parata gay avrebbe dimostrato che lo stato serbo è uno stato forte, e di diritto. Che la tutela dei diritti umani e delle minoranze, la loro uguaglianza di fronte alla legge, così come sancita dalla Costituzione della Repubblica Serba del 2006 e dalla legge contro la discriminazione del 2009, non sono solo parole su carta, ma un atto concreto, e una bussola di governo.

Ivica Dačić, ministro degli interni

Ehi, Boris, ma hai saputo?

Venerdì 30 settembre, il ministro degli Interni Ivica Dačić ha vietato qualsiasi forma d’assembramento per domenica 2 ottobre, compresa la parata dell’orgoglio gay, a causa della “grave minaccia all’incolumità fisica dei cittadini e dei loro beni immobili”. Lo stato ha così ammesso la mancanza di volontà, o capacità, nel difendere i propri cittadini, indipendentemente dal fatto che si tratti del loro orientamento sessuale, etnia o status sociale, dalla violenza di minoranze estremiste, queste sì, evidentemente, detentrici del monopolio (il)legittimo della forza su suolo serbo. All’indomani del mancato evento, Ivica Dačić ha dichiarato: <<Ieri forse, come dice Amnesty International, è stata una giornata nera per i diritti umani, ma è stata una giornata fantastica per i belgradesi>>. E d’altronde il presidente serbo Boris Tadić, paladino dei diritti umani e della Serbia filoeuropea, oltre che a capo di di quel Consiglio per la Sicurezza di stato che ha emesso il parere decisivo sulla cui base poi la polizia ha revocato il permesso per la manifestazione, non ha ritenuto di dover spendere una sola parola a riguardo. Era troppo impegnato nell’organizzare il ricevimento della rappresentanza femminile serba di pallavolo, all’indomani dell’oro vinto agli europei.

Il supporto palesemente scarso, anche solo rispetto al 2010, dato dalle autorità e dal governo serbi al gay pride di quest’anno, non è casuale: nel 2012 si terranno le elezioni, e nessuno è pronto a sacrificare voti nella difesa delle minoranze. Il che rende manifesta l’ipocrisia regnante nel partito di Tadić, oltre a certe imbarazzanti dichiarazioni del ministro Dačić, che ha dichiarato il suo Partito Socialista Serbo essere il più tollerante in quanto tra i suoi quadri accoglie alcuni gay dichiarati.

A Belgrado non è aria

E mentre anche i sindacati di polizia, non interpellati, manifestavano nei giorni precedenti la propria contrarietà alla parata (per ragioni di sicurezza interna, ma che puzzavano molto di politica), è stato il sindaco di Belgrado e vicepresidente del Partito Democratico di Tadić, Dragan Djilas, a dare il parere più articolato, in un dibattito televisivo al seguito dell’annuncio della cancellazione dell’evento: <<Questo è un paese che ha attraversato momenti  molto difficili, sanzioni, bombardamenti, guerre. Oggi avete la situazione in Kosovo, la povertà, e la società non può permettersi l’organizzazione di questo tipo di manifestazione, se non vogliamo poi contare le teste spaccate e le vite perdute“. Tradotto: finché ci occupiamo del Kosovo, gay e diritti umani possono bene aspettare. Così come tutto il resto.

Dragan Djilas, sindaco di Belgrado

Beautiful Nineties

In fondo, la dichiarazione del sindaco Djilas non fa che riassumere la politica serba degli ultimi vent’anni, sia essa quella del dittatore Milošević oppure quella dell’odierna transizione democratica. All’ordine del giorno, perenne, la ridefinizione dei confini nazionali, la lotta per l’integrità territoriale, la difesa del seme e del suolo serbi, accerchiati da nemici interni ed esterni, ad ogni modo immaginari. Ci sarà tempo, poi, per le passeggiate LGBT, così come ci sarà evidentemente tempo per i diritti dei rom, altro capitolo triste e impellente delle politiche sociali serbe, o ancora per quelli della minoranza albanese nel sud della Serbia, le cui richieste paritarie, sistematicamente disattese dall’alto del governo democratico di Belgrado, fanno il paio con le lacrime di coccodrillo che vengono versate per i fratelli serbi di Kosovska Mitrovica, dal lato opposto. Se non siamo in grado di garantire lo stato di diritto sul nostro suolo, nel cuore del paese, nel centro di Belgrado, quali pretese possiamo ambire su di una ex provincia abitata per il 90% da albanesi? In fondo, non abbiamo già sacrificato un’intera generazione sull’altare del nazionalismo di guerra? Già abbiamo vissuto la mancanza cronica di pane, latte, uova, benzina, medicinali. Gli scaffali vuoti dei supermercati e le code chilometriche agli uffici postali, per una pensione in dinari iperinflazionati, agli sportelli bancari, per un libretto di risparmio in marchi depredato dallo stato, di fronte alle ambasciate occidentali, per un visto d’espatrio e un futuro da riconquistare. Oggi, di nuovo, alla gente viene chiesto di rinunciare alle proprie vite, a dignità e sicurezza, perché in fondo è questo ciò che i “diritti umani“ rappresentano. L’uguaglianza viene raggiunta non tramite la definizione di standard collettivi garantiti dallo stato per il benessere della cittadinanza tutta, ma attraverso l’immiserimento di massa. L’attenzione viene strategicamente convogliata sulle tensioni kosovare, e la rabbia montante incanalata contro le fasce sociali più deboli e l’Unione europea, sognata una volta come soluzione a ogni male, da sempre misconosciuta, vista più come una vacca grassa da mungere che insieme di regole e valori da rispettare, tra i quali quello della tolleranza e del diritto d’espressione.

E allora, tornando alla nostra domanda iniziale, è proprio questo il momento di indire un gay pride a Belgrado? Sì, decisamente. È il momento per chi non è ortodosso, chi non è religioso, chi è omosessuale, chi non è nazionalista, chi rifiuta l’idea che la Serbia sia Serbia solo col Kosovo, di alzare la voce, e farsi sentire. È il momento di riaffermare il valore del pluralismo: di persone, interessi, idee. Contro il crepuscolo di chi vorrebbe omologare nuovamente la popolazione serba agli standard degli anni ’90, spingendo i ceti moderati al silenzio-assenso e drenando il paese delle migliori forze giovanili, più inclini ad emigrare che a donare i migliori anni ad un paese che rifiuta il cambiamento.

Chi è Filip Stefanović

Filip Stefanović (1988) è un analista economico italiano, attualmente lavora come consulente all'OCSE di Parigi. Nato a Belgrado si è formato presso l’Università commerciale Luigi Bocconi di Milano e la Berlin School of Economics, specializzandosi in economia internazionale. Ha lavorato al centro di ricerche economiche Nomisma di Bologna e come research analyst presso il centro per gli studi industriali CSIL di Milano. Per East Journal scrive di economia e politica dei Balcani occidentali.

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