Trent’anni fa l’89: il caso jugoslavo

“I miei occhi sono il mare Adriatico. I miei capelli sono il grano pannonico, mia sorella è l’anima slava. Io sono jugoslava”. E’il ritornello di Jugoslovenka, una nota canzone della famosa cantante bosniaca Lepa Brena che apparve nell’89 accompagnata da immagini che mostravano la grande varietà dei paesaggi jugoslavi, il tutto condito da un coreografico sventolio di bandiere con la stella rossa (il video è su YouTube).

In realtà queste parole così “patriottiche” suscitarono anche critiche e dissensi. Perché l’89 chiudeva un decennio in cui tutta la nation building jugoslava faticosamente creata negli anni era stata rapidamente erosa sia dal punto di vista ideologico (il titoismo, l’autogestione, il socialismo, la narrazione partigiana) che dal punto di vista economico e delle condizioni di vita materiali. Condizioni che presentavano – dopo decenni di investimenti federali – disuguaglianze territoriali enormi: ad esempio nell’89 vi era un’auto ogni quattro persone in Slovenia, ma una ogni 23 in Kosovo. Il tutto accompagnato da inflazione, disoccupazione, scioperi, crollo della produzione e dei consumi. E soprattutto della fiducia.

L’89 si presentò metaforicamente come un bivio, un bivio però asimmetrico: perché da una parte vi era una strada stretta e con scarso appeal che voleva mantenere e “ristrutturare” (quasi una perestrojka in salsa balcanica) la Jugoslavia prima del collasso. Dall’altro vi era la strada molto più invitante e populista (come si direbbe oggi) che puntava su di un nazionalismo repubblicano “salvifico”. Come sostenne il filosofo zagabrese Žarko Puhovski, il socialismo realizzato fu possibile solo in modo surreale, puramente ideologico, in cui la realtà fu inventata e proclamata. Il nazionalismo, secondo Puhovski, fu la facile “legittimazione di riserva” del sistema perché condivide lo stesso surreale impianto, fatto di mitologie e di realtà fantastiche come gli eroi “nazionali”, le purezze linguistiche, l’esaltazione di ciò che è vicino e locale come le “piccole patrie” (l’Heimat tedesco). La Jugoslavia diventa invece una “gabbia dei popoli”, una “casa di carta”, addirittura una “invenzione europea”.

Paradigmatica dell’89 jugoslavo fu, in primavera, la dissoluzione dell’Unione degli scrittori jugoslavi. Paradigmatica per due motivi: primo perché fu la prima organizzazione inter-repubblicana a sciogliersi, precedendo (di poco) la disintegrazione della Lega dei comunisti e poi dello stesso Stato federale, in un crescendo di incomprensioni e di animosità. E poi perché le linee di frattura si manifestarono nettamente: croati, sloveni e kosovari da una parte, serbi e montenegrini dall’altra. Le élite intellettuali avevano fatto la loro scelta.

Tuttavia nell’89 ci fu anche chi tentò la prima strada, quella di costruire (e di salvare) una “diversa” Jugoslavia. Fu l’esperienza generosa ed utopistica dell’Associazione per l’iniziativa democratica jugoslava (Ujdi, Udruženje za jugoslavensku demokratsku inicijativu), che – come riportano i due aggettivi – voleva proseguire con l’esperienza federale ma in modo democratico. Nata a gennaio ma registrata ufficialmente a dicembre, l’Associazione già nel ’91 scomparve inghiottita dalla guerra. Fu segnata da due limiti evidenti: il primo era che non volle mai essere un partito perché “non siamo interessati al potere e non la pensiamo tutti nello stesso modo”, come scrisse Branko Horvat, leader dell’Ujdi, su Republika; in secondo luogo l’Associazione rimase un fenomeno urbano ed elitario, stretto nella sua fragilità tra il comunismo declinante ed i nazionalismi emergenti. Fu, probabilmente, l’ultimo sussulto di unitarismo e di jugoslavismo, sia pure in chiave “democratica”.

Troppo poco e – soprattutto – troppo tardi. Gli eventi precipitavano e preparavano ciò che succederà nel decennio seguente. Come scrisse in quel periodo concitato il Delo di Lubiana, “La Jugoslavia non sarà mai più quella che è”. Fu facile profezia, a sua volta immediatamente superata: perché sarà proprio la Jugoslavia a non esserci più, a scomparire prima de facto due anni dopo e poi anche de jure. Eppure al censimento dell’81, un anno dopo la morte del Maresciallo, ben un milione e mezzo di cittadini rinunciarono alla propria nazionalità dichiarandosi semplicemente “jugoslavi”. Ma nell’89 la Jugoslavia si era evidentemente già consumata nei sentimenti ideali della comune appartenenza: non a caso da quell’anno non si tenne più la consueta Giornata della gioventù con relativa Titova štafeta. Così Jugoslovenka, nonostante il carisma canoro di Lepa Brena, appariva già romanticamente anacronistica.

Chi è Vittorio Filippi

Sociologo, docente Università Ca’Foscari e Università di Verona, si occupa di ricerca sociale, soprattutto nel campo della famiglia, della demografia, dei consumi. Collabora nel campo delle ricerche territoriali con la SWG di Trieste, è consulente di Unindustria Treviso e di Confcommercio. Insegna sociologia all’Università di Venezia e di Verona ed all’ISRE di Mestre. E’ autore di pubblicazioni e saggi sulla sociologia della famiglia e dei consumi.

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