“Dovevo restare e combattere. Ma non con il fucile. La mia unica arma era la parola”. Chi parla è Slobodan Minic, detto Boban, storica voce di Radio Sarajevo. E oggi parla in spagnolo, nella lingua del paese che l’ha accolto, lui e gli altri sopravvissuti della sua famiglia, dopo l’esodo/esilio da Sarajevo sotto assedio nel 1994.
E’ l’ottobre del 2013 quando Boban, per la prima volta dopo vent’anni, torna nella sua amata Sarajevo. Lo accompagnano due giovani cineasti spagnoli, Edu Marín e Olivier Algora, in un percorso in cui Boban si racconta e racconta la sua Sarajevo – “la città da dove fuggii e dove non potrò mai più tornare”.
“Nel nostro palazzo abitavano due famiglie croato-cattoliche, una famiglia serbo-ortodossa, al piano terra una famiglia musulmana, e nell’attico – ironicamente, i più vicini al Cielo – la nostra famiglia, che era mista ed atea.” Una casa d’artisti, in cui vengono girate scene cult dei primi film di Emir Kusturica – Ti ricordi Dolly Bell e Papà è in viaggio d’affari – con la sceneggiatura di Abdulah Sidran, amico e collaboratore di Minic a Radio Sarajevo.
E il ritorno è anche un momento per riallacciare antichi rapporti rimasti in sospeso – con il vecchio poeta Sidran, anch’egli di ritorno dopo l’esodo/esilio in Italia, così come i colleghi di Radio Sarajevo, con cui Boban ha condiviso gli anni d’oro della radiotelevisione jugoslava e gli anni duri dell’assedio, superato grazie anche alla resistenza culturale. “Siamo guerriglieri della cultura, e continueremo ad esserlo. Se un giorno dovessimo prendere il potere, dovremmo il giorno dopo fare la rivoluzione contro noi stessi”, afferma il vecchio Sidran. “Ciò che piace alle masse non potrà mai andare bene all’artista”.
Una resistenza culturale volta ad affermare la propria dignità di esseri umani di fronte all’aggressore armato. Così la sua vecchia compagna di liceo e collega alla radio, Dijana, conferma il suo ricordo di come, in uno dei pochi momenti di ritorno dell’elettricità, lei al piano e il marito violinista avessero approfittato della fioca luce per mettersi a suonare un’aria di Bach. O di come, chiusi nell’edificio di vetro e cemento della radiotelevisione, Boban e colleghi oltre a trasmettere le vitali informazioni sulla guerra e sull’assedio, cercassero anche di riportare la mente dei sarajevesi agli elementi di bellezza e di speranza, ad esempio discutendo come sarebbe stata Sarajevo dieci, venti o trent’anni nel futuro.
Ma la guerra non risparmia né vite né relazioni. Ed è Jadranka, sorella di Boban e giovane madre, a cadere vittima della granata che colpisce il mercato Markale. La madre, la moglie e i due figli di Boban abbandonano allora la città con uno degli ultimi treni a partire dalla stazione, nel 1993. Anche il saluto è troncato, per via della pallottola di un cecchino che rimbalza sul marmo, consigliando di accelerare gli addii. Boban resterà ancora un altro anno sotto l’assedio, nella sua Radio Sarajevo. Uscirà solo nell’inverno del 1994, attraverso il tunnel sotto l’aeroporto, dopo essersi ritrovato senza voce, e pertanto inutile al lavoro in radio.
“Stavamo preparando un viaggio fotografico in Bosnia e abbiamo letto il suo libro, Bienvenido a Sarajevo, Hermano. Ci siamo innamorati della sua storia e abbiamo deciso di farne un film – spiegano i due registi. – Abbiamo telefonato a casa sua per parlarne con lui, e suo figlio ci ha risposto che Boban non poteva parlare, perché sua madre era appena morta ed era impegnato a sistemare tutti i documenti. Ci siamo incontrati più tardi e ci ha detto: tornerò a Sarajevo per il funerale, se volete potete venire con me.” ll ritorno di Boban a Sarajevo infatti non è casuale: con lui tornano da Girona le ceneri di sua madre Edbina, per trovare il proprio posto al cimitero del Leone, accanto alla sua amata Jadranka.
Good Night Sarajevo – dal saluto che ogni sera Boban inviava ai suoi concittadini – non è un film di guerra, nonostante le crude immagini d’archivio. E’ un documentario sul ritorno di un uomo mite, parte di quell’élite culturale che vivificava la Sarajevo degli anni ’80, e che si è poi ritrovata divisa e dispersa durante e dopo il conflitto. “Abbiamo deciso di fare questo film per via della visione che Boban aveva della guerra e del suo paese, per il modo in cui ha combattuto con la sua voce anzichè con le pallottole, cercando di far dimenticare ai suoi concittadini della guerra e dell’assedio, riportando loro la speranza”.
Good Night Sarajevo è stato proiettato all’Al-Jazeera International Film Festival 2015. E’ disponibile in spagnolo con sottotitoli in inglese sulla piattaforma Filmin.es. Una versione in bosniaco è disponibile in chiaro su Al-Jazeera Balkans.