Nel corso dell’estate si sono rincorse le voci su uno scambio di territori tra Serbia e Kosovo come la definitiva soluzione per la normalizzazione dei rapporti tra Belgrado e la sua ex-provincia. La proposta è stata resa pubblica dal presidente serbo Aleksandar Vučić e dalla sua controparte kosovara Hashim Thaçi al Forum Europeo di Alpbach in Austria.
Il possibile scambio di territori porterebbe Belgrado a riconoscere l’indipendenza del Kosovo, permetterebbe a Pristina di aderire alle Nazioni Unite, e ad entrambi di proseguire nel loro percorso di adesione all’UE. La proposta si caratterizzerebbe come una revisione dei confini in senso etno-nazionale e interesserebbe la valle di Preševo – una regione della Serbia meridionale a maggioranza albanese – e i quattro comuni serbi a nord del fiume Ibar – un’area a forte maggioranza serba nel nord del Kosovo.
La comunità internazionale ha reagito in modo ondivago a questa ipotesi. Gli Stati Uniti hanno sostenuto la proposta, mentre la Germania e il Regno Unito hanno opposto un secco rifiuto all’eventualità di una revisione dei confini nella regione. La Commissione Europea ha assunto una linea possibilista sostenendo il dialogo tra le parti ma richiamandolo agl’imperativi della stabilità regionale e del rispetto degli standard internazionali ed europei.
Secondo i suoi estimatori, i punti forti della proposta risiederebbero nel fatto che essa sia realistica e che metterebbe fine a quel vulnus nel diritto internazionale rappresentato dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo del 2008. Realismo e rispetto del diritto internazionale vengono quindi presentati come i due pilastri del possibile scambio di territori tra Kosovo e Serbia, ma è davvero così?
L’imperativo del realismo
L’assunto alla base del carattere realista della proposta è la supposta impraticabilità di una soluzione alternativa a quella della revisione dei confini in senso etno-nazionale. Un’impraticabilità dovuta a due fattori principali. Da una parte, la presunta impossibile coesistenza di serbi e albanesi in uno stesso stato, propagandata dalle forze nazionaliste e confermata dai pochi passi avanti in termini di dialogo.
Dall’altra parte vi sono invece le considerazioni di carattere politico-elettorale. In ragione di queste, gli Accordi di Bruxelles del 2013, che prevedevano una normalizzazione dei rapporti progressiva e l’attuazione di una Associazione/Comunità delle municipalità serbe in Kosovo, sono in stallo dal 2015. La leadership di Pristina non voleva concedere tale associazione senza un’assicurazione sul riconoscimento dell’indipendenza, mentre quella di Belgrado non voleva rinunciare al grande mito elettorale della riconquista del Kosovo, in cambio di una mera associazione di municipalità.
Gli stessi presidenti Vučić e Thaçi insistono sull’ “essere realisti” per riuscire a convincere il proprio elettorato in maggioranza contrario all’accordo. Al congresso del partito progressista serbo del 24 settembre, Vučić ha fatto riferimento al fatto che “i serbi amano piangere su qualcosa di lontano, invece di avere qualcosa in mano adesso”. In modo simile, il presidente del Kosovo Thaçi, rivolgendosi alla popolazione kosovara, ha dichiarato che “il Kosovo ha già fatto troppi compromessi, ma la realtà è più testarda dei nostri argomenti”.
Tuttavia, sempre a voler “essere realisti”, nel valutare la proposta, non si possono certo ignorare le ricadute che uno scambio di territori possa avere nel resto della regione. Una ridefinizione etnica dei confini inevitabilmente alimenterà i progetti nazionalisti e le spinte secessioniste sia nell’entità a maggioranza serba della Bosnia-Erzegovina che nelle aree a maggioranza albanese della Macedonia. L’idea dell’omogeneizzazione etnica che soggiace a questa nuova revisione dei confini potrebbe sì risolvere il contenzioso tra Serbia e Kosovo, ma rischia di risultare fatale per altre aree nella regione.
Il rispetto del diritto internazionale
L’altro argomento forte tra gli estimatori della proposta riguarda il rispetto del diritto internazionale. Secondo costoro, uno scambio di territori tra Kosovo e Serbia con conseguente riconoscimento dell’indipendenza, sanerebbe quel vulnus nel diritto internazionale rappresentato dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo.
Tale dichiarazione di indipendenza è generalmente considerata una forzatura del diritto del popolo kosovaro all’autodeterminazione, e come tale non viene riconosciuta da ben cinque paesi UE (Cipro, Grecia, Romania, Slovacchia e Spagna). La revisione concordata dei confini tra stati limitrofi attraverso lo scambio di territori (fiumi, valli e montagne), invece, è una pratica consuetudinaria del diritto internazionale. Senza grandi clamori nel 2016, Belgio e Paesi Bassi hanno rivisto i propri confini, scambiandosi dei territori, e nel 2017 è stato il turno di Italia e Slovenia. Tuttavia, in questi casi, lo scambio riguardava fasce di territorio estremamente ridotte e disabitate.
Il proposto scambio di territori tra Serbia e Kosovo è invece cosa ben diversa. Ciò che prefigurano Vučić e Thaçi è uno scambio di popolazione, e come tale andrebbe trattato. I precedenti in questo caso sono molti meno, i due più famosi sono lo scambio di popolazione tra Grecia e Turchia nel 1922 e quello che seguì alla divisione tra India e Pakistan al termine della colonizzazione inglese nel 1947. In entrambi i casi a una divisione territoriale, seguì lo scoppio di tensioni e violenze tra popolazione maggioritaria e minoranze, colonne di rifugiati che attraversavano in senso opposto i nuovi confini, per concludersi con un successivo accordo che ratificava lo scambio di popolazione avvenuto con la violenza sul terreno. Tutti gli altri trasferimenti di popolazione dalla Seconda guerra mondiale in poi sono considerati deportazioni forzate o casi di pulizia etnica.
Per rispettare standard internazionali e diritti umani, ciò che si evince dalla poca dottrina in merito è che gli abitanti del nord del Kosovo e della valle di Preševo dovranno dare il loro “informato consenso” allo scambio di territori e alle sue conseguenze, cioè (in alcuni casi) al cambio della propria cittadinanza e al passaggio sotto diversa autorità statale. Ipotizzando – come i promotori dello scambio – che per ragioni di appartenenza etnica la maggioranza delle popolazioni dei due territori si dichiari favorevoli, restano da capire le sorti dei probabili contrari.
Di fatto, benché presentate come fortemente maggioritarie, le aree interessate dallo scambio di territori sono lungi dall’essere omogenee. Secondo le stime di Prishtina Insight, nella valle di Preševo solo il 65% della popolazione è di etnia albanese, mentre nel nord del Kosovo l’88% della popolazione è di etnia serba. Il probabile rischio fin qui ignorato è che uno scambio di territori possa generare un trasferimento di popolazione “indotto” – considerato come “non-consenziente” e perciò contrario al diritto internazionale – a scapito delle nuove minoranze che si creerebbero nei territori scambiati, o dei serbi del sud del Kosovo, o infine di chi, per svariate ragioni, voglia legittimamente vivere da minoranza.
Il proposto scambio dei territori è ancora in discussione e non si sa se andrà in porto. Ciò che è certo è che sarà ben più complicato di come viene semplicisticamente presentato al momento. Tutto a un tratto, l’attuazione degli accordi di Bruxelles del 2013, il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo da parte della Serbia, la realizzazione di adeguate misure di protezione e integrazione delle varie minoranze, sembrano invece soluzioni ben più realistiche.
Fonte immagine: Reuters/BBC.