BALCANI: Scambio di territori tra Serbia e Kosovo, verso un compromesso definitivo?

Il tormentone dell’ultima estate balcanica si chiama scambio di territori. Serbia e Kosovo stanno difatti valutando l’ipotesi di scambiare parte dei propri territori, vista come soluzione definitiva alla diatriba tra Belgrado e la sua ex-provincia. La proposta è portata avanti dagli uomini forti dei due paesi, il presidente della Serbia Aleksandar Vučić e il presidente del Kosovo Hashim Thaçi. Quella che i due leader presentano come soluzione, però, rischia seriamente di essere una miccia esplosiva per tutta la regione balcanica.

La proposta

L’idea di uno scambio di territori non ha ancora una formulazione ufficiale, ma tutto lascia intendere che il Kosovo possa lasciare alla Serbia le quattro municipalità a nord del fiume Ibar (tra cui la parte nord di Mitrovica), abitate in larga maggioranza da serbi, in cambio della valle di Preševo, regione meridionale della Serbia dove vivono soprattutto albanesi. La proposta non è nuova, dato che già negli anni’90 era emersa tra le possibili soluzioni alla questione del Kosovo, finendo poi nel dimenticatoio dopo l’indipendenza dichiarata da Pristina nel 2008.

Il progetto è stato rilanciato negli ultimi mesi dal presidente serbo Vučić, che da tempo annuncia l’imminenza di un compromesso definitivo con il Kosovo, necessario per l’integrazione europea dei due stati. La novità estiva, però, è che la proposta di Vučić ha trovato una sponda a Pristina. Dopo settimane di dichiarazioni ambigue, ad agosto il presidente kosovaro Thaçi ha chiaramente aperto all’ipotesi della revisione dei confini. I due leader hanno reso pubblica questa comunanza di vedute nel corso del Forum europeo di Albach, svoltosi in Austria a fine agosto, dove, seduti uno a fianco all’altro, hanno ammesso di stare lavorando ad un accordo definitivo tra i due paesi che può includere una correzione dei confini.

L’ammissione è arrivata sotto gli occhi del Commissario europeo per l’allargamento Johannes Hahn, che si è limitato a sottolineare la necessità che ogni accordo garantisca la stabilità regionale. Una linea ribadita dall’Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la politica di sicurezza Federica Mogherini, che ha aggiunto che Bruxelles è pronta ad accettare ogni accordo che sia in linea con gli standard internazionali ed europei. La posizione balbettante dell’Unione europea sul tema fa da contrasto, da un lato, al secco no a modifiche dei confini espresso dalla cancelliera tedesca Angela Merkel e dalla Gran Bretagna, e dall’altro, all’apertura a sostenere ogni tipo di accordo tra i due paesi da parte degli Stati Uniti. Il consigliere della Casa Bianca per la sicurezza nazionale John Bolton ha difatti dichiarato a Radio Free Europe che gli Stati Uniti non escludono correzioni territoriali tra Belgrado e Pristina.

Le opposizioni

Nonostante i concreti passi avanti, però, la proposta è ancora da considerare un’ipotesi remota. Pesano le forti opposizioni interne ai due paesi. Non a caso, al netto dei meeting a livello internazionale, sui media locali Vučić continua a ripetere che la Serbia è molto lontana da qualunque tipo di soluzione definitiva della questione. In patria, Vučić è accusato dai nazionalisti di rinunciare definitivamente al Kosovo, limitandosi a salvare la piccola regione del nord. La voce più autorevole che si è mossa contro lo scambio di territori, però, è quella della Chiesa ortodossa serba. L’operazione vorrebbe difatti dire la rinuncia ai monasteri ortodossi presenti nel sud del Kosovo, luoghi di enorme valore per i serbi.

Il compromesso potrebbe essere rappresentato da un referendum. Da mesi si specula su questa ipotesi ma non è affatto chiaro come potrebbe essere impostato il quesito: se come una modifica costituzionale che cancelli il Kosovo dal preambolo della costituzione serba, o piuttosto come una richiesta del presidente ad agire come plenipotenziario sulla questione. Mentre molti partiti dell’opposizione ritengono necessario il voto popolare, lo stesso Vučić teme che un eventuale esito negativo possa segnare l’inizio della sua fine politica.

Ancora più difficile sembra l’operazione di Thaçi. In Kosovo, l’idea di rivedere i confini è osteggiata da buona parte dell’opinione pubblica e delle forze politiche, non solo quelle all’opposizione. Il primo ministro Ramush Haradinaj ha affermato che ogni modifica dei confini del Kosovo avrà come conseguenza la guerra, mentre diversi esponenti politici accusano Thaçi di aver monopolizzato il negoziato con Belgrado. Nell’opinione pubblica c’è inoltre una diffusa contrarietà all’inizio di un nuovo, complesso processo riguardante la statualità del Kosovo, dopo gli enormi sforzi compiuti, e alla rinuncia alle municipalità settentrionali, dato che per anni si è lavorato per la loro integrazione, investendo una vasta quantità di risorse.

I rischi

Aldilà delle diatribe interne, lo scambio di territori comporta dei rischi molto seri, per il Kosovo e per tutta la regione. Prima di tutto, l’idea dell’omogeneità etnica, che fu il motore delle guerre degli anni ’90 e che soggiace a tale scambio, è un’illusione irrealizzabile, tanto più nei Balcani. Nel nord del Kosovo ci sono difatti anche villaggi albanesi, così come a Preševo c’è una cospicua presenza di serbi: lo scambio non farebbe che generare nuove minoranze. C’è poi la complessa questione dei serbi che vivono a sud del fiume Ibar, circa 60-70.000 persone: lo scambio di territori taglierebbe ogni loro legame con la Serbia, il che potrebbe favorire un nuovo esodo verso nord, con serie conseguenze umanitarie.

Infine, è impossibile non pensare alle conseguenze più ampie di tale operazione. Se si cambiassero i confini degli stati in nome del principio etnico, sarebbe possibile un effetto a catena negli altri paesi balcanici. In primis, l’entità serba della Bosnia Erzegovina, che un anno fa firmò con Belgrado una “Strategia per la sopravvivenza del popolo serbo”, ennesimo memorandum d’intesa volto a potenziare i legami storici e culturali tra la Republika Srpska e la Serbia. Una ridefinizione dei confini tra Serbia e Kosovo non farebbe che galvanizzare l’entità presieduta da Milorad Dodik, che da sempre fonda il proprio successo politico sulla minaccia secessionista. L’effetto a catena potrebbe poi investire anche la componente albanese della Macedonia, o i serbi del Montenegro, che si sentirebbero in diritto di richiedere una revisione del proprio status e dei confini dei territori dove vivono. Solo chi non conosce la storia della regione non può scorgere i seri rischi per la pace regionale.

Le posizioni dei due presidenti, le aperture dell’amministrazione americana e i tentennamenti dell’Unione europea sembrano non tenere conto di tali pericoli. Per quanto il raggiungimento di un accordo definitivo tra Belgrado e Pristina è quanto mai necessario, questo non può essere fatto a costo di generare nuove crisi. La speranza, al momento, è che Vučić e Thaçi agitino lo spettro dello scambio di territori per mero calcolo politico, cercando di ottenere il più possibile dal futuro accordo. Soprattutto per Vučić, il tema può essere funzionale a mostrare alla propria opinione pubblica che ogni tentativo è stato messo in campo, spostando poi sulla comunità internazionale la responsabilità di un accordo che, in un modo o nell’altro, porterà Belgrado ad accettare l’indipendenza kosovara, ottenendo al massimo forme di autonomia per i serbi con la definitiva costituzione dell’Associazione delle Municipalità Serbe.

Solo i prossimi eventi, a partire dall’incontro tra i due presidenti in programma a Bruxelles il prossimo 7 settembre, diranno quanto c’è di vero. La speranza è che si tratti soltanto di tattica politica e che l’interesse per la stabilità regionale e il rifiuto del principio etnico prevalgano.

Chi è Riccardo Celeghini

Laureato in Relazioni Internazionali presso la facoltà di Scienze Politiche dell'Università Roma Tre, con una tesi sui conflitti etnici e i processi di democratizzazione nei Balcani occidentali. Ha avuto esperienze lavorative in Albania, in Croazia e in Kosovo, dove attualmente vive e lavora. E' nato nel 1989 a Roma. Parla inglese, serbo-croato e albanese.

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