TURCHIA: “Ci eravamo tanto amati”: l’inedita inimicizia con gli USA

“Ci troviamo ad un punto di crisi delle nostre relazioni”. Questo ha dichiarato l’ormai ex segretario di stato Rex Tillerson in visita ad Ankara lo scorso 16 febbraio dove ha incontrato il presidente della Repubblica di Turchia Recep Tayyip Erdoğan ed il ministro degli esteri turco Mevlut Cavusoğlu. Ad un mese di distanza, proprio Cavusoğlu lo scorso 13 marzo a Mosca ha pronunciato la stessa identica frase a riguardo.

Come e perché la storica alleanza tra Turchia e Stati Uniti rischia ora di naufragare?

Un rapido excursus storico

Il rapporto fra Stati Uniti e Turchia, che ha assunto importanza maggiore dalla fine della Seconda guerra mondiale, ha sempre avuto tre capisaldi: sicurezza, militarismo, interrelazione economica e finanziaria, in un approccio definito strategico per l’innegabile peculiarità geopolitica della Turchia. Dal 1952, inoltre, quando la Turchia è entrata nella Nato, la sua fedeltà al Patto Atlantico l’ha protetta da ogni situazione scomoda. Anche in caso di colpi di stato (specie nel 1970 e nel 1980) gli Stati Uniti hanno sempre collaborato all’instaurazione del nuovo regime purché non fosse compromessa la lealtà alla Nato. Ora per la prima volta nella storia questo viene messo in discussione.

Il periodo della guerra fredda è stato costituito da alti e bassi, ma da allora gli Stati Uniti sono diventati il principale fornitore di armi alla Turchia. Fu il patto di Baghdad del 1955 a suggellare l’intesa Turchia – Usa a completamento della dottrina Eisenhower per l’isolamento dell’Urss. Ben oltre la caduta del muro, fra il 1994 ed il 2000 si registrano ben 11 miliardi di dollari di spese militari sostenute dagli Stati Uniti per la Turchia, come fa notare un saggio dei professori Erhan e Sivis pubblicato un anno fa sulla rivista Insight Turkey.

Molto è cambiato dopo l’11 Settembre 2001: la lotta al terrorismo di George W. Bush fece ben sperare il futuro primo ministro Recep Tayyip Erdogan di una conseguente intensificazione del contrasto anche alla diffusione del PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan). Tuttavia, gli Stati Uniti hanno sempre avuto ottimi rapporti coi curdi iracheni già dai primi anni novanta, e si sono schierati dalla parte dei curdi anche in Siria dal 2014 in poi, a supporto di movimenti ribelli come YPG (Yekîneyên Parastina Gel , Unità di Protezione Popolare) che la comunità internazionale considera i principali fautori della lotta all’ISIS, mentre per il presidente turco sono considerati essi stessi dei terroristi.

È proprio dal 2014 che i rapporti fra Stati Uniti e Turchia si deteriorano. 

Trump ed Erdoğan

Trump ed Erdoğan, almeno sulla carta, condividono la lotta all’ISIS, ma quanto accaduto di recente ad Afrin conferma l’incompatibilità degli attori impiegati per questa apparente comunione di intenti, secondo dinamiche già viste nell’assalto a Manbij nell’agosto 2016. Con l’operazione “ramoscello d’ulivo”, adesso Erdoğan ha aperto un nuovo fronte di battaglia, a scapito di milioni di civili e militari, pur di non concedere ai curdi il nord-est della Siria, per il rischio di un allargamento della loro autonomia sui territori. L’incontro sopracitato con Tillerson, seppur con tutte le buone intenzioni, ha confermato che i rapporti fra i due paesi sono agli sgoccioli poiché per il governo turco l’unica soluzione è la sospensione del supporto americano al movimento curdo YPG, a meno che non si raggiunga un compromesso proprio sulla suddetta area di Manbij. Erdoğan ha dichiarato che se le truppe americane non si faranno da parte, riceveranno uno “schiaffo ottomano” (una tecnica del diciassettesimo secolo capace di uccidere istantaneamente) e che estenderà il proprio intervento ad est dell’Eufrate, area sotto controllo curdo, ma dove sono presenti forze speciali americane.

A testimonianza di questa crescente tensione, anche la visita di Erdoğan negli Stati Uniti, risalente al maggio scorso, è stata contrassegnata da proteste contro l’intervento turco in Siria e violenza. Ben nove dei manifestanti che si sono radunati davanti alla Casa Bianca sono stati feriti dagli stessi agenti di sicurezza di Erdoğan che li hanno presi a calci e pugni, come riporta un video del Guardian.

La politica estera intrapresa da Trump in medioriente non aiuta: all’annuncio dell’eventuale spostamento della capitale israeliana da Tel Aviv a Gerusalemme lo scorso dicembre, la reazione di Erdoğan è stata quella di convocare il vertice per la Cooperazione dei Paesi Islamici che riconosce Gerusalemme est come capitale della Palestina affermando di voler aprire un ambasciata turca in risposta alla mossa americana. La questione è stata ribadita in udienza dal Papa durante la visita di Erdoğan in Italia dello scorso 4 febbraio. Dalle primavere arabe in poi il ruolo della Turchia come paese esempio per il nuovo corso del Nordafrica nonché la figura di Erdoğan come detentore dei diritti dei sunniti influenza fortemente queste dinamiche.

La spina nel fianco: Fetullah Gülen

Dulcis in fundo c’è Fetullah Gülen. L’alleanza americana con l’imam di Erzuzum ed il suo network religioso Hizmet, nato negli anni settanta, è cominciata negli anni novanta per contrastare pressione demografica e crescita economica delle zone anatoliche, con conseguente possibile maggiore affermazione di forze politiche di ispirazione islamista, come spiega Dario Fabbri di Limes. A neppure dieci anni di distanza, Gülen finì nel mirino dei kemalisti e si autoesiliò in Pennsylvania dove tuttora risiede, nonostante le pressanti richieste di estradizione da parte del governo turco. Secondo Fabbri, il 2013 col crollo degli investimenti stranieri e la rivolta di Gezi Park avrebbe lasciato intravedere un indebolimento crescente della figura di Erdoğan e quindi la possibilità per gli Stati Uniti di spingere verso la sostituzione del leader. Se, come riportato dalle agenzie, fosse vero che la Casa Bianca fosse stata a conoscenza del piano di tentato golpe già dal primo pomeriggio del 15 luglio 2016, per poi prendere le distanze una volta fiutata la disfatta, di certo le successive purghe hanno privato Stati Uniti e Nato degli “interlocutori privilegiati” con la Turchia, facenti parti non solo di Hizmet, ma delle forze armate. Sono ben dodici i cittadini americani detenuti nelle carceri turche ad oggi e lo scorso ottobre, l’arresto (per sospetti legami al movimento di Gülen) di Metin Topuz, un dipendente del consolato statunitense in Turchia, ha causato il blocco temporaneo dei visti per i cittadini turchi cosa che ha comportato conseguenze importanti per turisti, studenti, giornalisti, medici, diplomatici, ufficiali.

Sempre secondo Fabbri, il meccanismo lobbistico dietro Gülen negli Stati Uniti è così consolidato che nessuno potrà imporre l’estradizione. Tuttavia, questo ha fatto sì che l’opinione pubblica turca in merito agli Stati Uniti precipitasse, come evidenzia un sondaggio riportato da Al Jazeera secondo il quale ben il 79% dei turchi oggi si esprime negativamente verso gli Stati Uniti.

Davvero incerta e tortuosa sembra la strada per ricucire uno strappo simile.

fonte fotografica: wikimedia commons

Chi è Eleonora Masi

Classe 1990, una laurea in Relazioni Internazionali ed esperienze in Norvegia, Germania, ma soprattutto Turchia, di cui si occupa dal 2015. Oltre a coordinare la redazione dell'area del Vicino Oriente per East Journal svolge il ruolo di desk per The Bottom Up mag. Ha ideato e prodotto il podcast "Cose Turche" che racconta gli ultimi 10 anni della Turchia dal punto di vista dei millennial che li hanno vissuti sulla loro pelle.

Leggi anche

elezioni municipali Turchia 2024

TURCHIA: L’anno delle elezioni municipali

In Turchia è iniziato un nuovo anno di campagne elettorali: quella per le elezioni municipali nelle principali città del Paese. La partita più importante si gioca a Istanbul: l'attuale sindaco Ekrem İmamoğlu riuscirà ad essere riconfermato o l'AKP si riprenderà anche la città dove la carriera politica del presidente Erdoğan si è avviata?

WP2Social Auto Publish Powered By : XYZScripts.com

×