Un secolo lungo, lunghissimo, ci separa dall’Ottobre Rosso

Il cosiddetto Ottobre Rosso (o Grande Ottobre, Velikij Oktjabr’ secondo la dicitura russa) di un secolo fa non fu solo un evento storico grandioso, tragico e del tutto inatteso, ma fu anche eccezionalmente mitopoietico. Esso infatti sollevò e nutrì fino agli anni Ottanta una ricchissima messe di attese, speranze, visioni, desideri spesso – specie nello stato nascente della rivoluzione – di particolare ed inedita radicalità sociale e politica. Probabilmente nessun fatto storico riuscì ad evocare una tal promessa di eutopia e di palingenesi come la rivoluzione del 1917.

E’ emblematico il fatto che quando nel 1921 Konstantin Juon dipinse Il nuovo pianeta, interpretò con colori intensi la rivoluzione come la nascita di un nuovo mondo. In effetti era proprio un prossimo nuovo mondo quello che sembravano additare tutte le statue di Lenin, sempre con l’immancabile braccio teso verso il futuro, versione secolarizzata dell’iconografia biblica del Mosè sul Sinai con l’indice della sinistra rivolto verso il cielo. D’altronde il marxismo ha sempre avuto un forte impianto teleologico: la rivoluzione, scriveva Marx, “non può trarre la propria poesia dal passato, ma solo dall’avvenire”. Una speranza che assumeva perfino intensi tratti messianici come nelle parole dell’Internazionale: “Costruiremo un mondo nuovo, il nostro mondo. Chi era nulla, diventerà tutto!”. Nel 1935, proprio alla vigilia delle grandi purghe, Stalin proclamò che “vivere è diventato più bello, compagni, vivere è diventato più allegro”. L’avanzata verso il socialismo si misurava non solo nel “lusso proletario” della metropolitana moscovita, ma anche dai numeri imponenti della produzione industriale e dalla conquista dello spazio, cosmica vetrina della nuova competizione tra Unione Sovietica e Stati Uniti.

Ma dagli anni Settanta, gli anni della grande stagnazione brežneviana, la tensione verso il futuro si appanna, il mito diventa una stanca liturgia gerontocratica, l’estetica si fa demistificatrice con l’arte detta “post-utopica” mentre le parole di Berlinguer dell’81 sull’esaurimento della spinta propulsiva dell’Ottobre sembrano chiudere il sipario del sogno sovietico. Un sogno che vive solo “esportato” nelle lotte della decolonizzazione africana,  ma che all’interno ormai è tarlato dalla rinascita del mercato extra piano, dai traffici della nomenklatura economica, dal ruolo degli intellettuali che volevano essere quella classe media che mancava (come si scrisse apertamente sul Kommunist nell’88), per finire all’ideologia nazionalista, che come sappiamo, tanto velocemente sostituì quella della lotta di classe negli anni Novanta post-sovietici.

Se per Marx le rivoluzioni sono le “locomotive della storia”, oggi non sembra davvero esserci nessuna locomotiva in arrivo nella stazione del tempo presente. Anzi, l’arretramento dei ceti medi e dei salari avutisi nei paesi avanzati enfatizzati dalle recenti crisi del capitalismo finanziario non hanno certo prodotto nessun conflitto sociale di tipo classico. Né, tantomeno, un nuovo demiurgico Lenin. Perché, è stato notato con acume sociologico, disagi e disuguaglianze – in una società deideologicizzata ed individualizzata – prendono due varianti lontane da quelle del passato (di massa e ideologico) ottocentesco e novecentesco. La prima è quella anomica e frammentata del conflitto puramente individuale, in cui manca appunto la capacità di aggregazione degli interessi e la solidarietà che ne dovrebbe scaturire. Nella seconda variante le pulsioni “liquide” del malcontento e delle paure dei ceti medi e popolari (come i forgotten men trumpiani) si incanalano in sentimenti reattivi, autoritari, insofferenti e spesso a matrice identitaria. In cui il cosmopolitismo – in tutte le sue molteplici nature – è sentito semplicemente pericoloso e disorientante.

In questo senso ci separa dall’Ottobre un secolo lungo, anzi lunghissimo. Ma se l’eutopia non ce l’ha fatta a divenire eterotopia, se il comunismo appare screditato e polveroso – nonostante il consolatorio racconto brechtiano del sarto di Ulm – la colpa paradossalmente è anche di coloro che (come scrisse Maksim Gor’kij sulla fine dei populisti russi) “risvegliando le speranze, non sono riusciti a realizzarle”. Ma ciò certamente non toglie che, come più di un secolo fa, ci sia bisogno di un “pensare altrimenti” (come titola Diego Fusaro) che ci faccia almeno immaginare quello che c’è al di fuori dell’alienante caverna platonica dell’odierno, omologante pensiero unico globale.

Chi è Vittorio Filippi

Sociologo, docente Università Ca’Foscari e Università di Verona, si occupa di ricerca sociale, soprattutto nel campo della famiglia, della demografia, dei consumi. Collabora nel campo delle ricerche territoriali con la SWG di Trieste, è consulente di Unindustria Treviso e di Confcommercio. Insegna sociologia all’Università di Venezia e di Verona ed all’ISRE di Mestre. E’ autore di pubblicazioni e saggi sulla sociologia della famiglia e dei consumi.

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