Due attacchi coordinati, rivendicati entrambi dall’Isis, hanno fatto tremare l’Iran, provocando una dozzina di morti. Colpiti il parlamento e il mausoleo dell’ayatollah Khomeini, situato simbolicamente sulla strada fra la capitale politica e quella religiosa, fra Teheran e Qom. Anche per l’Iran, oasi di pace in una regione in fiamme, torna così a farsi sentire l’incubo del terrorismo. Una serie di azioni, a differenza degli attacchi avvenuti in Europa, concepite soprattutto per colpire al cuore lo stato, quella Repubblica Islamica nata con la deposizione dello scià nel 1979. Il re è nudo, sembrano volerci dire questi atti, nella loro orrida lingua di violenza. Ed ecco che ritornano, puntuali e ripetute fino allo sfinimento, le retoriche su un mondo islamico diviso da oltre un millennio in uno scontro immutabile fra sunniti e sciiti. Un mondo che si vorrebbe peso in una lotta senza quartiere sorta subito dopo la morte del profeta Muhammad. Ma siamo sicuri che vadano proprio così le cose? O non si tratta forse di una semplificazione grossolana?
La verità è ben diversa. A ben vedere, il problema è oggi uno solo, e si chiama Arabia Saudita. Una dinastia, supportata prima dalla corona britannica e poi dagli Stati Uniti, che propone una versione innovativa ma particolarmente intransigente della sunna, ovvero della tradizione egemone – ieri come oggi – nella religione islamica. Eppure, nonostante i miliardi di dollari investiti in tutto il mondo per predicare il loro veleno – fra fondazioni, istituzioni varie e moschee – siamo ben lungi dall’avere un consenso diffuso su tale forma, non accettata certo con fervore da tutti i fedeli o in tutti i paesi. Questo particolare tipo di islam ha invece assai ben attecchito nelle varie formazioni terroristiche che colpiscono in Medio Oriente, in Europa e altrove. A ben vedere, dunque, a parlare di scontro fra sciiti e sunniti facciamo un regalo soprattutto a loro, a terroristi e predicatori d’odio, che altro non desiderano che ergersi a paladini di un mondo, quello sunnita, che nonostante tutti i mezzi messi in campo e l’effluvio di petroldollari continua a considerarli – dalla loro prospettiva, e non solo – in modo fin troppo tiepido.
In quest’ottica, l’attacco all’Iran e al suo leader politico e religioso più amato, Khomeini, proprio a questo vorrebbe portare. A una polarizzazione che non c’è, soprattutto a livello di società civile. In Iran esistono moschee sunnite in diverse città, ed intere aree a maggioranza sunnita. La stessa cosa si verifica in altri paesi, dove in moltissimi casi la divisione confessionale non è mai stata così netta. Come capita con le minoranze religiose, assai diffuse in tutta la regione, la convivenza perlopiù pacifica delle due correnti maggiori dell’islam è stata una realtà consolidata per secoli, nonostante le periodiche esplosioni di violenza, determinate spesse volte dalle manovre politico-confessionali delle varie dinastie al potere. Si tratta di una questione politica, con intrecci economici assai evidenti. Il punto è semmai che l’ascesa politica ed economica dell’Iran degli ultimi anni, avvenuta in contemporanea con la crisi economica del regime saudita, ha sconvolto equilibri consolidati nella regione, facendo temere alle monarchie del Golfo di poter essere spazzate via dalla loro stessa inettitudine. Ed ecco allora che il richiamo della religione trova il suo fondamento più vero: una chiamata a raccolta fatta dal potere ai sudditi, che vengono aizzati contro nemici immaginari affinché volgano altrove lo sguardo. Il più lontano possibile, ovvero, dalla corruzione, lo sfruttamento e i disastri politici e sociali che caratterizzano il panorama quotidiano degli stati del Golfo.
Smettiamo dunque di guardare al Medio Oriente da un’ottica orientalistica, immobile al passato, che favorisce solo i fondamentalisti e i seminatori di odio, i predicatori delle identità forti. La modernità ha fatto irruzione eccome in questa regione, e voler ridurre identità complesse e articolate a una semplice matrice religiosa significa semplicemente non aver capito nulla della realtà sociale mediorientale di oggi. Di più: significa lavorare attivamente affinché la regione arretri sempre più verso identità sclerotizzate, estreme, facendone facile preda dei terroristi. Ricordo ancora con orrore come al tempo dell’invasione americana dell’Iraq – all’epoca ero ancora solo uno studente – circolassero su riviste specialistiche e giornali miriadi di mappe del Paese su base etnica-confessionale, che avrebbero dovuto essere alla base del futuro della nazione. Il disastro dell’Iraq, Paese che ha rischiato seriamente di implodere e scomparire, è qui di fronte a noi a ricordarci come la via da percorrere sia un’altra, non quella confessionale, come le questioni da sollevare siano altre e assai più concrete. Non sarebbe il caso di interrogarsi invece, una volta per tutte, sul supporto politico, economico e militare che continuiamo a fornire ai sauditi e ai loro alleati in modo del tutto acritico? La religione, quest’oppio per analisti poco puntuali e per media a caccia di titoli forti, ci sta portando fuori strada rispetto a interessi e complicità che dobbiamo denunciare, ora più che mai, se non vogliamo fare non uno, ma due regali ai terroristi e ai loro sponsor nella regione. Che nell’auspicio di uno scontro totale fra sunniti e sciiti stanno giocando la carta, forse l’ultima, della loro stessa sopravvivenza.