In un recente articolo apparso su Carnegie Europe, il giornalista e scrittore britannico Thomas De Waal, esperto di Caucaso e conflitti congelati, invita l’Unione Europea ad approfittare dell’attuale contesto politico georgiano per aumentare il proprio “coinvolgimento” nei confronti delle regioni separatiste di Abcasia e Ossezia del Sud. Ma in che modo l’UE si sta già impegnando in questi territori – e perché dovrebbe continuare a farlo? Ne ha parlato l’autore stesso, intervenuto il 26 gennaio alla sede di Carnegie di Bruxelles insieme a Magdalena Grono dell’International Crisis Group.
La politica europea di “non-riconoscimento e coinvolgimento”
Nel dicembre 2009, un anno e mezzo dopo la guerra lampo dell’agosto 2008, l’UE ha lanciato una “politica di non-riconoscimento e coinvolgimento” (non-recognition and engagement policy – NREP) nei confronti dell’Abcasia e dell’Ossezia del Sud. Lo scopo di questa politica, spiega de Waal, è di creare uno “spazio di manovra politico e legale in cui l’UE possa interagire con le entità de facto, senza pertanto compromettere le proprie relazioni con la Georgia” e il riconoscimento della sua integrità territoriale. Da una parte, si cerca di aumentare l’influenza dell’UE su queste regioni e sulle autorità separatiste, creando un contrappeso politico alla Russia. Dall’altra, l’impegno dell’UE è dettato dalla necessità di ridurre l’isolamento delle popolazioni residenti nelle regioni separatiste, favorendo i contatti con l’Europa e la cooperazione umanitaria, sociale ed economica. Degli obiettivi importanti che hanno però finora avuto un riscontro e una visibilità molto limitati sul campo.
Le cause del fallimento
Le ragioni del parziale fallimento della NREP sono molteplici. In primis, sebbene il riconoscimento della sovranità territoriale della Georgia non sia mai stato messo in discussione dall’UE, Tbilisi ha tradizionalmente guardato con sospetto le interazioni tra l’Unione e le entità separatiste, temendo che queste ne approfittino per legittimare la propria indipendenza e ottenere un riconoscimento internazionale. “Questi timori hanno finora bloccato la realizzazione di iniziative simboliche ma importanti, come ad esempio la creazione di un centro d’informazione sull’Unione europea a Sukhumi o la riapertura delle linee ferroviarie che collegano l’Abcasia alla Georgia” afferma De Waal.
In secondo luogo, la “Legge sui territori occupati” attualmente in vigore dimostra già dal nome l’approccio restrittivo della Georgia e il suo rifiuto di stabilire rapporti costruttivi con le autorità di Sukhumi e Tskhinvali; quest’ultime respingono a loro volta la cooperazione con Tbilisi nell’ambito di tale legge. Sebbene nel febbraio scorso l’ombudsman georgiano abbia nuovamente incitato il governo a rivedere la Legge sui territori occupati, sollevando le restrizioni sull’ingresso e sulle attività economiche svolte da individui e organizzazioni stranieri nei territori separatisti, l’attuale legislazione continua a limitare possibili interventi umanitari ed economici dell’UE. Inoltre, dichiarando illegali i documenti rilasciati dalle autorità separatiste, la legge complica l’accesso della popolazione abcasa e osseta a determinati servizi sul proprio territorio, tra cui l’acquisizione del passaporto georgiano.
Un’altra, non trascurabile, causa del fallimento della NREP è forse la mancanza di interesse delle autorità de facto nei confronti di possibili iniziative intraprese dall’UE. In particolare, l’Ossezia del Sud mostra “sfiducia” nei confronti degli attori internazionali, e rispetto all’Abcasia appare molto più isolata e controllata militarmente dalla Russia. L’investimento economico e militare della Russia in Abcasia e Ossezia del Sud è inoltre già estremamente alto e ineguagliabile per l’UE.
Possibili sviluppi?
Eppure, sostiene de Waal, l’UE dovrebbe, al contrario della Russia, “puntare sul proprio potenziale di modernizzazione e su investimenti diretti ad accrescere il capitale umano delle regioni separatiste, piuttosto che le loro infrastrutture”. Magdalena Grono aggiunge al riguardo che alcune iniziative volte a formare il personale medico, scolastico e accademico attraverso degli scambi con i paesi europei sarebbero allo stesso tempo efficaci e “rassicuranti” per Tbilisi, poiché il rischio di sviluppare possibili “capacità separatiste” degli stati de facto è minore.
L’UE dovrebbe inoltre investire in progetti di cooperazione transfrontaliera che permettano di riavvicinare le comunità divise dai conflitti e di ricostituire quella fiducia che si è di nuovo persa dopo la guerra del 2008. Da un lato della “frontiera”, rimane drammaticamente in sospeso la questione dei circa 260.000 sfollati georgiani che non hanno mai potuto fare ritorno alle loro regioni d’origine. Dall’altro, nonostante l’apertura verso la Russia, nelle repubbliche de facto si respira un clima generale di isolamento e – soprattutto tra le giovani generazioni che non hanno vissuto la multietnicità dell’epoca sovietica – di assenza di contatto coi coetanei al di là della linea di conflitto.
Alcuni progetti già in corso, tra cui quello permettente ai cittadini abcasi di ricevere cure mediche negli ospedali georgiani, o quello che coinvolge le autorità di Tbilisi e quelle di Sukhumi nella ricerca delle persone disperse a causa dei conflitti, dimostrano che “la cooperazione è possibile, senza peraltro essere politicizzata”, continua Magdalena Grono.
Secondo De Waal, la netta vittoria del partito Sogno Georgiano alle elezioni dello scorso ottobre, e l’attuale spaccatura interna del Movimento Nazionale Unito, tradizionalmente contrario all’interazione europea con le autorità separatiste, potrebbero creare l’apertura necessaria affinché l’EU aumenti il proprio impegno in Abcasia e Ossezia del Sud.
Foto: Newsweek