L’Unione Europea farà la fine della Jugoslavia?

L’Unione Europea e la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia hanno avuto due diversi sviluppi storici in due momenti diversi; hanno avuto diversi valori e diverse competenze giuridiche; hanno avuto dimensioni diverse e quindi diverse popolazioni; e mentre la prima si stava consolidando in una delle sue forme definitive attraverso il trattato di Maastricht, nel 1992, la seconda stava vivendo ancora una volta gli orrori di città sotto assedio, pulizie etniche e campi di concentramento.

Nonostante queste differenze, quello jugoslavo e quello dell’UE sembrano essere due sistemi molto affini tra loro, e per questo motivo oggetto di analisi di confronto.

La federazione jugoslava, nella sua “seconda versione”, venne formata in occasione della seconda sessione del Consiglio Antifascista di Liberazione Nazionale della Jugoslavia (AVNOJ) il 29 novembre 1943, a Jajce, Bosnia – Erzegovina. A Jajce, le delegazioni provenienti da tutte le repubbliche diedero vita alla Federazione Democratica di Jugoslavia “sulla base del diritto di ogni popolo all’autodeterminazione, incluso il diritto alla secessione o all’unione con altri popoli, e in conformità con le aspirazioni reali di tutti i popoli della Jugoslavia, così come dimostrati nel corso dei tre anni di resistenza per la liberazione nazionale, la quale ha plasmato i popoli della Jugoslavia in un indivisibile fratellanza”[1]. Con questa decisione quindi, confermando la comune avversione verso il nemico nazi-fascista, i popoli jugoslavi “hanno dimostrato la loro ferma determinazione a rimanere uniti nella Jugoslavia”[2].

Due anni prima invece, nel 1941, sull’isola di Ventotene, un gruppo di prigionieri politici italiani, tra cui Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, redasse il “Manifesto di Ventotene”, nel quale vennero gettate le fondamenta per una futura federalizzazione d’Europa. La resistenza italiana al fascismo, così come era evidente in questo stesso documento, venne considerata come un sentimento condiviso nel resto d’Europa, in grado di prevenire in futuro le drammatiche conseguenze delle degenerazioni degli Stati-Nazione.

Nonostante la seconda sessione dell’AVNOJ e il Manifesto di Ventotene non avessero connessioni tra loro, e molto probabilmente rimasero sconosciuti l’uno all’altro, entrambi rappresentano la determinazione dell’opposizione dei popoli contro il fascismo. Inoltre, questi due documenti esprimono i principi fondanti sui quali creare un nuovo ordine in Europa, o in una sua regione: la lotta unita contro la ripetizione della catastrofe fascista, e il mantenimento della pace.

Bratstvo i Jedinstvo e In Varietate Concordia

Da un punto di vista storico, la Jugoslavia sembra aver ricalcato per molti versi la storia d’Europa e si potrebbe anche dire che, da Lubiana a Skopje, essa rappresenti una sorta di fotografia sintetica della storia del vecchio continente. I territori delle ex repubbliche infatti, conservano le stesse differenze storiche che su larga scala si ritrovano in Europa. La storia della penisola balcanica racchiude dentro di sé non solo parte dei maggiori cambiamenti europei, ma anche le stesse dinamiche che hanno dato forma all’Europa. In essa infatti ritroviamo regni e dinastie medievali; le guerre e l’occupazione da parte di imperi stranieri; lo scontro tra imperi multinazionali; le rivolte delle nazioni soggiogate; e i miscugli intra-etnici causati da migrazioni, conversioni, guerre e persecuzioni. In Jugoslavia così come in Europa si conservano tuttora le tracce delle tre grandi fedi monoteiste – cristianesimo, islam e giudaismo – che hanno contribuito a modellare il continente europeo. Anche se qualcuno può obiettare il contrario, “parlare di tradizioni cristiane, islamiche e giudaiche e radici della cultura europea, non è una nozione così paradossale. Può significare l’apertura dell’Europa e il riconoscimento della ricchezza e trasversalità delle sue radici; così come può anche significare la selettiva appropriazione di quei tratti che hanno finito per esser parte della tradizione Europea e quindi occidentale” (Todorova, 1997, 159).

Al momento della loro fondazione dunque, sia Jugoslavia che Unione Europea furono intese come due enormi contenitori istituzionali in cui preservare e sviluppare sia gli interessi che le aspirazioni delle nazioni congiunte. In altre parole, così come riassunto dal motto jugoslavo e da quello dell’Unione Europea – Bratstvo i Jedinstvo (fratellanza e unione) e In Varietate Concordia (uniti nella diversità) la federalizzazione dei popoli non ha uno scopo oppressivo ma piuttosto rappresenta un tentativo di congiungere obiettivi comuni.

Secondo i propri principi fondativi, Jugoslavia e Unione Europea, hanno sempre cercato di veicolare gli interessi delle nazioni affinché venisse raggiunto il bene comune. In particolare, affinché venissero equamente rappresentati i popoli costituenti, sia la Jugoslavia che l’UE hanno adottato principi di rappresentanza su base nazionale nei propri organi ed amministrazione. La cosiddetta “chiave etnica” della Jugoslavia, così come definitivamente consacrata dall’ultima costituzione del 1974, costituisce un prototipo di quella che è la vigente rappresentanza nazionale in seno agli organi dell’Unione Europea.

Dall’esercito alla banca centrale, così come dai singoli consigli comunali fino alla presidenza congiunta, l’amministrazione jugoslava sembrava aver anticipato l’organizzazione interna dell’Unione Europea.

La costituzione jugoslava del 1974, aumentando i poteri verso le repubbliche e le province autonome, prevedeva anche una soluzione per la presidenza collegiale in previsione dell’imminente morte del Maresciallo Tito. La presidenza della SFRJ era composta da un membro per ogni repubblica e provincia autonoma, eletto nei rispettivi parlamenti. Dalla morte di Tito (4 maggio 1980) in poi, la presidenza eleggeva un presidente e un vice-presidente “tra i suoi stessi membri, per un periodo di un anno, così come previsto dal sistema vigente di Regole e Procedure della Presidenza” (Djordjevic, 1982, 115).

In questo modo ogni anno, attraverso il principio di rotazione, ogni repubblica e provincia autonoma reggeva la presidenza del paese, e indirizzava gli scopi politici da intraprendere.

Lo stesso principio di rotazione era in vigore nell’Unione Europea, precisamente nel Consiglio Europeo. Il Consiglio Europeo infatti, prima dell’adozione del Trattato di Lisbona nel 2009, era composto dai primi ministri e dai capi di stato degli stati membri, e secondo il principio di primus inter pares la presidenza veniva rotata ogni sei mesi. Allo stesso modo, il presidente del Consiglio dell’Unione Europea, che rappresenta il corpo esecutivo all’interno dell’UE, ruota ogni sei mesi.

Due modelli federativi

Secondo i più classici principi federativi, entrambi i sistemi si sono evoluti secondo un processo di decentramento dei poteri, cercando di soddisfare quanto più possibile il principio di sussidiarietà, per il quale le decisioni vengono prese quanto più vicino possibile a coloro che ne andranno a beneficiare. Ciononostante, è opportuno rilevare una paradossale differenza tra il sistema jugoslavo e quello UE. Infatti, mentre la Jugoslavia si è evoluta partendo da una forte centralizzazione dei poteri verso una più ampia autonomia per le repubbliche e province costituenti, fino eventualmente a renderne la secessione un fatto “inevitabile”; dall’altro lato, l’Unione Europea si è evoluta come semplice area di libero scambio commerciale tra pochi paesi, fino ad arrivare ad essere uno dei principali attori della politica internazionale, dotato di proprie istituzioni centrali, che per certi versi sembra erodere parte delle sovranità nazionali dei 28 membri attuali.

Se si prendono in considerazione il sistema bancario e il sistema di riscossione delle tasse, per esempio, si nota che in entrambi i casi la funzione della banca centrale è quella di unione delle banche nazionali, che vi interagiscono secondo principi proporzionali; a sua volta, la tassazione rimane prerogativa dei corpi costituenti e solo parte del ricavato è destinato al funzionamento dell’amministrazione centrale. Nel caso della Jugoslavia, la maggior parte delle entrate a livello federale (10% circa) erano utilizzate per spese militari e per il mantenimento del personale militare, ovvero salari e pensioni; spese che invece non sussistono all’interno dell’Unione Europea, non disponendo di un esercito comune.

Molte delle critiche rivolte al sistema jugoslavo erano principalmente attribuite al fatto che esso fosse incurante delle priorità delle singole nazioni costituenti, e che lo schema federativo, così come modellato sul sistema dell’autogestione, comportasse la paralisi istituzionale dell’intero paese. Ciononostante, il sistema dell’UE sembra essere ben più vincolante per i sistemi politici e costituzionali dei paesi membri, che sono obbligati all’adeguamento istituzionale nei confronti di politiche comuni europee, come ad esempio l’impopolare Politica Agricola Comune (PAC), o più in generale il sistema monetario europeo che de facto erode la sovranità monetaria delle economie dei paesi dell’Eurozona.

La crisi del sistema

“L’Unione Europea si trova nella stessa posizione della Jugoslavia del 1983”[3]. Con queste parole l’economista e storico euroscettico sloveno Jože Mencinger paragona il sistema UE a quello jugoslavo a distanza di 30 anni. Secondo Mencinger l’attuale crisi europea ricorda per molti versi quella jugoslava dei primi anni ’80, quando l’economia della federazione era caratterizzata dalla stagnazione, dall’alto tasso di disoccupazione, un crescente debito pubblico e un generale clima di indifferenza reciproca tra le repubbliche costituenti. Questa sorta di “sindrome jugoslava” sembra dunque applicarsi al modello europeo dal momento che, come in Jugoslavia, i paesi membri non dispongono più del controllo indipendente della propria politica monetaria, essendo che i soldi sono stampati presso la Banca Centrale, e che non vi è controllo sul passaggio di capitale tra una frontiera e un’altra. Come le repubbliche jugoslave, i paesi membri dell’UE hanno già perso il controllo di quei principali elementi che contraddistinguono gli stati indipendenti: la moneta, il sistema delle tasse, e il controllo delle frontiere.

Inoltre, l’attuale crisi finanziaria ha accresciuto il clima di scarsa fiducia tra i paesi membri, così come nella Jugoslavia degli anni ’80, dove le repubbliche, invece di interagire tra loro in spirito di cooperazione,  guardavano gelosamente al proprio sistema economico e finanziario come principale competitore rispetto alle altre repubbliche. Analogamente infatti, sempre più gente in Germania crede che i cittadini greci li stiano sfruttando, mentre a loro volta i greci si sentono sfruttati dai tedeschi.

Questo sentimento di mancanza di fiducia reciproca ha portato, nel giro di pochi anni, all’accrescere le tensioni all’interno della federazione, fino eventualmente ad esplodere nella violenza delle guerre degli anni ’90. La mancanza di fiducia reciproca era ed è causata da quello che potrebbe essere definito un sistema a doppia velocità, in cui le repubbliche di Slovenia e Croazia custodivano gelosamente il proprio benessere economico ripudiando l’imposizione, a livello federale, del Fondo di sostegno per le regioni sottosviluppate, Kosovo in primis. Lo stesso accade a livello europeo tra le nazioni più economicamente competitive e quelli che sono stati ironicamente classificati come “GIPSI” (Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Italia).

Sempre secondo l’economista sloveno, i due sistemi sarebbero entrambi caratterizzati da un deficit democratico per il quale non si tratta di un unione tra cittadini ma bensì di unione tra stati e nazioni. In entrambi i modelli, il dibattito circa la democraticità del sistema ruota attorno alla questione “una persona, un voto” o “uno stato, un voto”. Così come in Jugoslavia era infatti impossibile mettere in discussione “l’unione e la fratellanza” o “l’identità di interessi”, allo stesso modo nell’UE sembra impossibile mettere in discussione “la moneta unica” e “l’identità d’interessi in Europa”. Così come non era prevista una procedura legale per le repubbliche che volessero abbandonare la federazione in Jugoslavia, allo stesso modo non esiste una disposizione che permetta la fuoriuscita dall’euro per i paesi dell’eurozona.

Quello che è successo alla Jugoslavia dei primi anni ’90 è proprio questo: le repubbliche più fiorenti hanno scelto di abbandonare il sistema in crisi, e hanno proclamato la propria secessione dalla federazione jugoslava.

In questa considerazione, è importante notare la paradossale differenza con l’Unione Europea. Mentre Slovenia e Croazia scelsero indipendentemente di abbandonare il sistema jugoslavo in crisi, affinché stabilizzassero le proprie economie e i vincoli federativi non costituissero più un ostacolo alla propria emancipazione; dall’altro lato, l’Unione Europea, che verte in stato di crisi, rappresenta un fondamentale punto d’aggregazione, utile alla stabilizzazione politica ed economica per paesi sovrani ed indipendenti.

In questo modo, sia Slovenia che Croazia, rispettivamente nel 2004 e nel 2013, sono entrati a far parte della “Famiglia Europea”.

Prospettive future

Quando lo scorso primo luglio la Croazia è diventata il 28° membro dell’Unione Europea le immagini che riportavano alcuni festeggiamenti in piazza “Ban Jelačić” a Zagabria venivano ironicamente commentate dai portali di satira come “festeggiamenti per la fine dell’indipendenza croata”. A 22 anni di distanza dalla proclamazione della propria indipendenza, la Croazia è diventata membro dell’Unione Europea, andando però de facto verso un’istituzione che, considerato il sistema bancario centrale e la struttura (semi)federale dell’Unione, ricorda per molti versi la defunta federazione jugoslava.

Allo stesso modo le restanti ex-repubbliche jugoslave stanno accelerando i processi di negoziazione per la propria candidatura all’UE, e tra il 2005 e il 2012 Macedonia, Montenegro e Serbia hanno ottenuto lo status ufficiale di candidato all’adesione, mentre Bosnia Erzegovina e Kosovo rimangono candidati potenziali.

I paesi dell’ex-Jugoslavia non ancora inglobati nell’UE – spesso definiti da parte della letteratura come “restern of Balkans” (i rimanenti balcanici) – partecipano, insieme ad Albania e Moldavia, alla CEFTA, ovvero un area di libero scambio commerciale che funge da “allenamento” in attesa dell’allargamento dell’UE verso questi paesi. In questo modo i paesi candidati si abituano al processo di unificazione dei propri mercati, abbattendo quindi tariffe doganali e aumentando la competizione nella regione, dimostrando ulteriormente all’UE la volontà condivisa di voler far parte del sistema europeo. Quello della CEFTA non rappresenta un’unione vera e propria di questi paesi ma potrebbe essere intesa come un esempio di punto intermedio tra il sistema jugoslavo e quello europeo.

Infine, negli ultimi 20 anni Jugoslavia e Unione Europea si sono mossi su binari opposti, il primo ha portato alla disintegrazione e il secondo alla piena integrazione sul palcoscenico mondiale.

Per queste due entità il 1992 ha rappresentato, nel bene e nel male, l’anno della svolta e i cambiamenti conseguiti in quegli anni sono andati via via radicalizzandosi incontrovertibilmente, facendo scomparire rapidamente le alternative possibili sia alla distruzione jugoslava che alla consolidazione europea. In altre parole, questi due eventi sono sembrati inevitabili, irresistibili e irrevocabili, senza considerazione alcuna per una via di mezzo. Una via di mezzo che avrebbe aiutato la morente Jugoslavia a stabilizzarsi nell’Europa nascente, e continuare a esistere l’uno nell’altro.

Non è infatti l’Unione Europea uno dei principali fattori di stabilizzazione di quelle società in transizione? Non rappresenta di fatto la cooperazione delle nazioni e il mantenimento di un equilibrio nel nostro continente? E infine, se esiste una balcanizzazione d’Europa, l’Unione Europea sarà in grado di sopravvivervi?

Quando anche le rimanenti ex sorelle jugoslave entreranno nel club europeo, sarà possibile definire se esse si saranno definitivamente stabilizzate o se viceversa sarà l’Unione Europea a doversi stabilizzare.

[1] Dal preambolo della decisione dell’AVNOJ.

[2] Ibidem.

[3] Articolo comparso sul “Berliner Zeitung” e ripreso prima dalla testata croata “nacional.hr” il 21/05/2011 http://www.nacional.hr/clanak/108541/mencinger-europska-unija-danas-je-u-istom-polozaju-kao-jugoslavija-1983 ; e poi da “stefanogiantin.net” il 4/08/2011 http://www.stefanogiantin.net/foreign-media/the-eu-should-strengthen-itself-or-it-will-end-up-like-yugoslavia/

Chi è Giorgio Fruscione

Giorgio Fruscione è Research Fellow e publications editor presso ISPI. Ha collaborato con EastWest, Balkan Insight, Il Venerdì di Repubblica, Domani, il Tascabile occupandosi di Balcani, dove ha vissuto per anni lavorando come giornalista freelance. È tra gli autori di “Capire i Balcani occidentali” (Bottega Errante Editore, 2021) e ha firmato due studi, “Pandemic in the Balkans” e “The Balkans. Old, new instabilities”, pubblicati per ISPI. È presidente dell’Associazione Most-East Journal.

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