di Pietro Rizzi e Giulia Tempo
Diciamoci la verità, noi amanti dell’Est sappiamo che andando ad oriente il nettare degli Dei, il vino, è spesso di bassa qualità e di alto prezzo. Chi di noi ha provato il Sovetskoe Champanskoe, bevanda delle feste sovietiche, non può che aver sorriso sentendolo definire “vino”.
Eppure alcuni paesi hanno nel proprio DNA un succo di Bacco che per qualità non ha nulla a che invidiare con le nostre italiche produzioni. Si potrebbe citare la Moldova, per la quale la produzione vitivinicola conta circa il 20% del PIL, ma il caso più emblematico, e sconosciuto, è la Georgia.
E se lo dice Omero…
Non è una notizia recente, anzi, è antichissima. “Il vino è nato in Georgia”, vi sentirete dire fieramente da ogni buon georgiano. Che sia così, non c’è certezza: le prime prove di produzione del vino si collocano tra il 10000 a.C. ed il 9000 a.C. nel territorio compreso tra il mar Nero ed il mar Caspio. Non fu qualcosa di cercato, bensì il risultato della fermentazione di uva dimenticata casualmente all’interno di contenitori simil anfore.
Quello che però ci fa pensare che proprio di Georgia si trattasse è il ritrovamento di un insediamento datato attorno al sesto millennio prima di Cristo nel quale era presente quella che oggi potremmo definire una cantina.
Se però l’archeologia non vi convince si può ricorrere ad Apollonio Rodio, vissuto nel terzo secolo avanti Cristo, che narra degli Argonauti che ebbero la fortuna di riposare nel palazzo di Aieti nella Colchide (proprio qui sarebbe nata la coltivazione della vite), l’attuale zona occidentale della Georgia, dove videro fontane di vino e numerose viti. Ma se credete che Apollonio fosse un po’ alticcio, come non credere ad Omero che parla, nella sua Odissea, di vini molto profumati e di ottima qualità proprio della Colchide?
Una questione religiosa e culturale
Il vino, nella simbologia cristiana, è il sangue di Cristo. Lo sanno bene i georgiani, che considerano il vino un vero e proprio elemento della loro cristianità. Non è infatti un caso che la santa che portò nel 327 d.C. il cristianesimo nel Regno di Iberia (anche definito Iveria, l’attuale parte orientale e meridionale della Georgia) sia stata santa Nino, che convertiva la regione con una croce formata da tralci di vite, rimasta ancora oggi un simbolo della Chiesa autocefala ortodossa georgiana.
Fin dall’antichità, inoltre, il vino riveste un ruolo chiave nella cultura georgiana: i guerrieri di queste terre, quando si scontravano in battaglia con i popoli vicini, adornavano le proprie armature con alcuni tralci di vite. Non si trattava tanto di un rituale apotropaico, quanto di un omaggio alla terra georgiana: il guerriero che fosse morto combattendo avrebbe irrorato del proprio sangue i tralci, permettendo loro di germogliare e rendere fecondo il terreno.
Del Kakheti o dell’Imereti, basta che sia vino
I metodi utilizzati per la produzione sono molto diversi da quelli comunemente utilizzati in Italia e, generalmente, in tutto il mondo, e ciò porterà l’assaggiatore impreparato a percepire sapori molto diversi da quelli soliti, inizialmente quasi fastidiosi, ma col tempo sempre più piacevoli ed intensi (almeno questi sono i gusti di chi vi scrive!).
Ruolo centrale nel processo di produzione del vino georgiano è detenuto dai kvevri, vasi di terracotta all’interno dei quali si sviluppa il processo di fermentazione del vino. Due sono le metodologie principali, derivanti dalle omonime regioni: la khakhetiana e quella imeretiana.
Nel primo caso vengono fatte fermentare, oltre al mosto, anche le vinacce, mentre nel secondo caso si aggiungono anche parte dei semi e dei raspi. In entrambi i casi gli kvevri rimangono sempre interrati, permettendo al vino di mantenere una temperatura costante di poco inferiore ai 15 gradi.
Queste metodologie sono attualmente le più simili a quelle utilizzate nell’antica Roma; il vino, nel caso georgiano, si mantiene a gradazioni accettabili proprio per la costante temperatura che permette una fermentazione moderata ma continua.
Il ruolo della chacha
Dulcis in fundo, una bevanda a gradazione alcolica decisamente maggiore. La chacha, spesso accomunata alla grappa italiana, si ottiene dalle vinacce fermentate e tradizionalmente la distillazione è casereccia. Il superalcolico viene spesso confuso con altre bevande simili ma di altra origine, tanto che nel 2011 il Ministero dell’Agricoltura lo ha registrato con il marchio GI, che ne indica la provenienza geografica precisa e impone alcuni requisiti fondamentali.
La vera chacha georgiana, per poter essere definita tale, deve essere stata prodotta all’interno dei confini del paese, senza aggiunta di liquori di altro genere o di zucchero. Per esempio, la Vakhtan Kikabidze viene prodotta solo a partire dal vigneto Saperavi (letteralmente “tintura”) che cresce nella zona di Kvareli, nell’ovest della Georgia. Inoltre, il tasso alcolico non può superare il 75% – spesso infatti alcune produzioni caserecce tendono ad avere gradazioni anche maggiori.
Un brindisi
Il momento dedicato al vino è un momento di convivialità e condivisione, molto più che nella cultura occidentale. Prima di bere, normalmente, si dedica il brindisi ad una persona oppure ad un valore: si brinda agli antenati, alla libertà, alla patria; ancora oggi, quando si beve in compagnia di ospiti stranieri, si brinda spesso all’amicizia e all’ospitalità. Ad essere incaricato di pronunciare il discorso che precede il brindisi è un convitato scelto per l’occasione, il tamada (თამადა), che conclude l’intervento con un “gaumarjos!” (გაუმარჯოს) – che corrisponde al nostro “cin cin”. Preparatevi, perché i brindisi saranno lunghi e molto numerosi, e ricordatevi: rifiutarsi di brindare o bere può essere ritenuto un vero affronto, di conseguenza… non fatelo!
Immagine: Georgia About