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CALCIO: Sentenza Hillsborough, Liverpool non dimentica

È stata la causa legale più lunga nella storia dell’ordinamento giuridico britannico. Una misura che però travalica i due anni di durata dell’ultima inchiesta, comprendendo idealmente anche la lotta, durata oltre un quarto di secolo, che ha portato alla sentenza. Ventisette anni per stabilire la verità su quanto successo nello stadio Hillsborough di Sheffield il 15 aprile 1989. Ventisette anni per restituire la verità alle famiglie delle vittime e stabilire la responsabilità nella morte di 96 tifosi e nel ferimento di altri quattrocento alla Leppings Lane. Ventisette anni per ufficializzare, una volta per tutte, che non di scellerati tifosi ubriachi si era trattato, ma di colpevoli negligenze da parte della polizia e degli organizzatori. E per mettere in discussione una volta per tutte un modello di gestione della sicurezza pubblica che aveva già visto, negli anni ’80 degli scioperi dei minatori, risposte repressive e violente da parte delle forze dell’ordine.

Si è chiusa questa settimana l’investigazione sulla strage di Hillsborough. Una giuria di inchiesta formata da sei uomini e tre donne nella cittadina di Warrington ha deliberato che la morte di 96 persone nello stadio fu causata dall’errore umano e dall’inefficienza della polizia, e non fu né accidentale né causata dal comportamento dei tifosi. Le responsabilità, oltre che sulla gestione della polizia, vanno ricercate secondo la sentenza anche nello staff di pronto soccorso, nelle condizioni dello stadio e nella dirigenza dello Sheffield Wednesday, il club che possiede l’impianto di Hillsborough, e dei suoi consulenti per la sicurezza dell’impianto, Eastwood & Partners. Un verdetto che non ha risparmiato l’attuale capo della polizia del South Yorkshire, David Crompton, sospeso dal suo incarico dal commissario per la polizia e il crimine Alan Billings e protagonista negli scorsi anni di diverse posizioni controverse e critiche nei confronti dei comitati impegnati nella battaglia per la verità sul disastro. Una decisione che, secondo il commissario Billings, dipende dall’«erosione della fiducia nella polizia del South Yorkshire».

I fatti sono questi: il 15 aprile 1989, allo stadio Hillsborough di Sheffield si tiene la semifinale di FA Cup tra il Nottingham Forest e il Liverpool, squadra che nella seconda metà degli anni ’80 sta scontando lo stigma pubblico per un’altra strage negli stadi, quella della finale di Coppa dei Campioni allo stadio Heysel. Responsabile della sicurezza è il sovrintendente della polizia del South Yorkshire David Duckenfield, promosso solo pochi giorni prima per il trasferimento dell’esperto sovrintendente capo Brian Mole. Un trasferimento ufficialmente motivato come “avanzamento di carriera”, ma in realtà conseguenza di un episodio di bullismo da parte della squadra di Mole nei confronti di una recluta. Il nuovo arrivato, Duckenfield, non ha alcuna esperienza nella supervisione di un evento sportivo. Anzi, sono passati dieci anni dall’ultima volta che ha prestato servizio in uno stadio.

Sarà lo stesso Duckenfield, in un’udienza dello scorso anno, ad ammettere la sua inadeguatezza al ruolo e l’inadeguatezza della sua preparazione: non conosceva la geografia dell’impianto, né le capacità delle diverse sezioni, né la dinamica degli incidenti che vi avevano preso luogo nel 1981 (38 feriti) e nel 1988, né tantomeno aveva idea del fatto che la polizia fosse responsabile per il controllo del sovraffollamento. Trovatosi a gestire una situazione più grande di lui, si bloccò e, per sua stessa ammissione, la sua inazione fu fatale. Fatale insieme all’inadeguatezza di Hillsborough: per via di una ristrutturazione avvenuta otto anni prima, lo stadio era privo di un certificato di sicurezza valido ed era già stato, negli anni precedenti, teatro di incidenti causati dal sovraffollamento. Senza piani per filtrare l’accesso dei supporter del Liverpool alla Leppings Lane, l’area dello stadio a loro riservata, la polizia ben presto perse il controllo della situazione – come spiega approfonditamente un lungo e dettagliato articolo di David Conn sul Guardian. Sette tornelli formavano il collo di bottiglia attraverso cui dovevano passare oltre diecimila tifosi liverpudliani. La congestione fuori dai tornelli si fece insostenibile, portando – a soli otto minuti dal calcio d’inizio – alla decisione da parte di Duckenfield di aprire il Gate C, un largo cancello di uscita.

Normalmente l’accesso alle due gradinate centrali, che contenevano appena duemila persone, veniva chiuso una volta raggiunta la capienza massima (due minuti prima dell’apertura del Gate C). L’inesperienza e l’inadeguata preparazione delle forze dell’ordine portarono però a trascurare le valutazioni su dove si sarebbe diretto il flusso di folla all’apertura del cancello. Una folla che si riversò proprio verso le gradinate centrali, impossibilitata a fermarsi: centinaia di persone finirono schiacciate, compresse e asfissiate dalla calca nel tunnel che portava alle gradinate o contro le alte recinzioni in acciaio – una novità introdotta nel 1974 per evitare invasioni di campo. La polizia, ormai incapace di far fronte alla situazione e senza la minima comprensione di quanto stesse accadendo, si trovò a ricacciare indietro chi cercava la salvezza verso il terreno di gioco. Quel giorno Liverpool perse 96 persone: la più giovane aveva solo dieci anni e 37 di loro non arrivavano a venti. 58 bambini rimasero orfani, mentre l’ultima vittima perse la vita nel 1993, dopo quattro anni di coma vegetativo. Negli anni a seguire almeno tre dei sopravvissuti si suicidarono per le conseguenze psicologiche dell’evento, mentre un altro passò otto anni in cura psichiatrica. Una ferita profonda nell’anima degli Scouser, i liverpudliani. Una ferita su cui decenni di menzogne e infamia non fecero altro che spargere sale.

When Saturday Comes, una delle più importanti fanzine calcistiche inglesi, dedicò all’evento una copertina entrata nella storia. Di fronte alle dichiarazioni di innocenza degli organizzatori, della polizia e della lady di ferro Margaret Thatcher («Non è stata colpa nostra») c’era la rassegnata risposta della folla: «Oh, beh, dev’essere di nuovo colpa nostra». Immediatamente si tentò di riversare sugli spettatori la responsabilità di quanto avvenuto: Duckenfield stesso ammise di aver messo in circolazione la voce che si era trattato di una carica da parte di tifosi senza biglietto. Al linciaggio pubblico degli spettatori, facile capro espiatorio nell’Inghilterra post-Heysel, contribuì anche il tabloid The Sun, con la sua famigerata prima pagina The Truth, in cui il quotidiano scandalistico strillava che i tifosi avevano rubato i portafogli alle vittime, urinato sui poliziotti e picchiato chi cercava di fornire soccorsi. La realtà era ben diversa: furono proprio i tifosi a dare i primi soccorsi – in alcuni casi a estrarre persone dalla calca e tirarle nei settori meno affollati – e a portare diversi feriti in luoghi di raccolta, facendo fronte così alla mancanza di interventi adeguati e alla presenza di sole quattro ambulanze.

Nel suo primo editoriale post HillsboroughWhen Saturday Comes fu netto e non adottò mezze misure, individuando subito il tentativo di sfuggire alla responsabilità da parte delle forze dell’ordine e puntando il dito contro il reale substrato sociale della tragedia. «La polizia ci vede come un’entità di massa, spinta dall’alcool e unanimemente risoluta a creare anarchia distruggendo proprietà e attaccandosi l’un l’altro con scopi omicidi. Il contenimento e la limitazione del danno sono alla base della strategia della polizia. I fan sono trattati con il massimo disprezzo. […] L’implicazione è che le persone “normali” debbano essere protette dallo spettatore di una partita di calcio. Ma noi siamo persone normali». Una riflessione che proseguiva con un netto j’accuse:

«Il calcio sta venendo trasformato nel capro espiatorio per una società brutalizzata nel corso dell’ultimo decennio».

E che concludeva con questa amara constatazione: «In nessuna altra area della vita la vittima è trattata con lo stesso disprezzo che si usa con chi perpetra un crimine, né la maggioranza è tenuta a essere colpevole dei crimini perpetrati da una minoranza. Ma, in fondo, quello che ci sta succedendo non è importante. È la nostra colpa per il fatto di essere tifosi di calcio. Per questo i deputati hanno sempre ignorato i nostri appelli da parte delle organizzazioni di supporter che cercavano di prevenire il tipo di disastro che ora è divenuto realtà. […] Ora tutti conoscono la risposta. Pochi giorni fa, non sentivano nemmeno la domanda».

Per questo motivo Liverpool, per 27 anni, ha cercato la verità, si è confrontata con le proprie ferite, evitando di dimenticarle e di nasconderle. Lo ha fatto la città e lo ha fatto la squadra. A dieci anni di distanza dalla strage John Williams di When Saturday Comes osservava: «Nessuna partita del Liverpool, ovunque sia, ha luogo senza la rituale distribuzione degli adesivi Justice gialli e senza copiosi riferimenti – nelle fanzine, nelle bandiere, sui siti, sullo stemma della squadra – alle 96 vittime. Sono entrate nell’identità stessa del club e della sua nuova generazione di tifosi». Alle commemorazioni partecipano anche i rivali cittadini dell’Everton: un miglio di sciarpe unite in ricordo delle vittime unirà i due stadi cittadini – Anfield e Goodison Park – pochi giorni dopo HillsboroughUna solidarietà che non è svanita a distanza di 27 anni, come ha dimostrato la dichiarazione da parte del club di Goodison Park sui social media dopo l’annuncio della sentenza: «La vittoria delle famiglie delle vittime di Hillsborough è la più grande vittoria nella storia del calcio». Nel 2012, in seguito a un decisivo sviluppo nelle inchieste sulla strage, al Goodison Park erano scesi in campo due bambini, uno con la maglia del Liverpool e uno con la maglia dell’Everton. I numeri sulle loro schiene erano il 9 e il 6, in tributo alle vittime. Anche diversi giocatori si sono spesi perché si continuasse a parlare di Hillsborough. Uno su tutti Steven Gerrard, leggendaria bandiera del Liverpool e cugino della più giovane delle vittime.

Sono solo alcuni degli esempi della resistenza civile e dello sforzo della comunità Scouser di non far cadere nel dimenticatoio la vicenda, di proseguire nel doloroso percorso per trovare la verità. Di non lasciare sole le famiglie delle vittime, accolte dall’abbraccio di trentamila persone dopo la sentenza, e dallo storico coro del Liverpool, You’ll Never Walk Alone, il cui titolo non era mai stato più pregno di significato. E di non perdonare chi su quelle menzogne tentò di avventarsi rapace. Come il Sun, che all’indomani delle falsità della sua prima pagina dovette affrontare l’orgogliosa risposta di un’intera città e la campagna Don’t Buy The Sun. Il boicottaggio del tabloid, a cui spesso i liverpudliani si riferiscono come al S*n, censurandolo come fosse una volgarità, continua a distanza di ventisette anni. Perché Liverpool non dimentica e, ancora oggi, Scousers Never Buy The Sun.

Disclaimer: in questo articolo non si parla di est Europa. Ma East Journal non vuol dire necessariamente un’ortodossa aderenza alla nostra area di riferimento. In particolare missione della redazione sportiva è non solo – e non tanto – la narrazione dell’attualità sportiva est europea, quanto l’attenzione generica a quegli episodi in cui il racconto politico e sociale si intreccia con quello sportivo. Questa è la ratio di un articolo sulla sentenza di Hillsborough e sulla lotta per la giustizia dei tifosi del Liverpool e della gente di Liverpool, in risposta preventiva a chi chiederà come mai sia di casa qui un articolo sul calcio inglese.

Foto: Justice For The 96 (Facebook)

Chi è Damiano Benzoni

Giornalista pubblicista, è caporedattore della pagina sportiva di East Journal. Gestisce Dinamo Babel, blog su temi di sport e politica, e partecipa al progetto di informazione sportiva Collettivo Zaire74. Ha collaborato con Il Giorno, Avvenire, Kosovo 2.0, When Saturday Comes, Radio 24, Radio Flash Torino e Futbolgrad. Laureato in Scienze Politiche con una tesi sulla democratizzazione romena, ha studiato tra Milano, Roma e Bucarest. Nato nel 1985 in provincia di Como, dove risiede, parla inglese e romeno. Ex rugbista.

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