Le porte chiuse della Macedonia ai profughi. Il requiem dell’Europa

Sono ormai diversi mesi che va in scena il drammatico esodo di popolazioni che scappano, prevalentemente, dalla Siria, dall’Iraq e dall’Afghanistan a causa delle guerre e del terrorismo. Il tema è scottante e coinvolge tutta l’Europa, tanto da essere collocato in cima nell’agenda europea (e non solo). Eppure, malgrado conferenze, dibattiti e discussioni a volte anche molto accese, contromisure idonee ad arrestare o, quantomeno, attenuare il fenomeno non se ne vedono ancora.

Anche Papa Francesco, intervenendo all’Angelus domenicale, ha lanciato un duro monito contro i governanti europei per ricordar loro l’urgenza di trovare in breve tempo soluzioni efficaci, non “di comodo”, per non lasciar soli i paesi sui quali, più di tutti, grava la situazione. Tra questi, è ovviamente in cima alla lista la Grecia, alle prese con una crisi umanitaria senza precedenti a causa della messa in campo, da parte dei paesi come Slovacchia, Ungheria o Austria (che si è vista rifiutare l’ingresso in Grecia del proprio ministro degli esteri, in tutta risposta) di misure restrittive che hanno avuto, come effetto primario, quello di bloccare migliaia di migranti in Grecia.

La situazione è particolarmente complessa al confine con la Macedonia, in particolare a Idomeni, dove ieri si sono registrati violenti scontri tra migranti – esasperati dalla situazione – e forze di polizia. A Idomeni, infatti, più di 5mila persone – a fronte di una capienza massima di 1200 – sono bloccate da giorni. Questo, fino a poco tempo fa, era un “confine aperto”, tanto che – nel 2015 – più di 800mila persone sono transitate senza problemi. Oggi è cambiato tutto: nel corso di un vertice dei capi della polizia dei paesi balcanici, tenutosi il 18 febbraio scorso senza nemmeno una rappresentanza greca, la Macedonia ha fissato in 580 persone al giorno (poi ulteriormente abbassato a 300) il tetto massimo all’afflusso dei rifugiati. La polizia presente al confine lascia passare solo iracheni, siriani e afghani (ma spesso anche questi ultimi restano esclusi), rispedendo tutti gli altri verso la capitale. Tutto ciò mette a dura prova sia il paese ellenico, il quale – se dovesse saltare Schengen – si troverebbe a dover gestire da solo tutta la procedura delle richieste d’asilo, sia l’Europa nel complesso, in quanto se non dovesse riuscire a gestire il caos, si troverebbe orfana di Schengen e, probabilmente, anche della Grecia, collassata a quel punto sotto il peso degli eventi.

Proprio per questo, è intervenuta in prima persona la cancelliera Angela Merkel, la quale, molto appassionatamente, ha gridato che l’Europa non può permettere che la Grecia sprofondi nel caos. “Non mi sono battuta come una leonessa per tenere la Grecia nell’eurozona per vederla poi abbandonata”, ha precisato la cancelliera tedesca, ribadendo che il suo governo continuerà ad accogliere i migranti.

Anche l’Italia, per bocca del suo ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, ha garantito che l’accoglienza di 93 profughi siriani, sbarcati all’aeroporto di Roma Fiumicino qualche giorno fa, è la prima tappa di “un’iniziativa molto importante, che consente e consentirà a centinaia e centinaia di rifugiati, molti dei quali bambini, di arrivare qui in sicurezza”. Per fronteggiare il dramma della migrazione, ha aggiunto, “non serve alzare muri o steccati”, ma “operazioni diverse a partire dai corridoi umanitari“.

Il problema è che l’Europa non riesce ancora a parlare con una voce sola, o meglio: i capi di Stato s’incontrano a Bruxelles, sottoscrivono documenti dove sono indicate azioni da mettere in atto collettivamente, ma poi ciascuno – tornato in patria – si comporta in modo autonomo. La ferma presa di posizione della Germania lascia ben sperare, ma non sarà in ogni caso facile adottare misure efficaci e condivise da tutti. La posta in gioco è  molto alta: se l’Europa dovesse fallire l’appuntamento, sarà la fine. E Idomeni ne sarebbe la sua rappresentazione visiva.

Chi è Flavio Boffi

27 anni, dottorando in Studi Politici a La Sapienza, laureato in Relazioni Internazionali all'Università degli Studi Roma Tre. Collaboro con East Journal da giugno 2014, dopo aver già scritto per The Post Internazionale e Limes.

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