I tram non ritornano, da anni, lungo la via Thököly. I binari, inflessibili, proseguono senza timore, verso la distanza, i grigiori vuoti, l’orizzonte.
Ogni giorno alle sedici, nelle giornate d’inverno, s’accendono i bulbi giallastri della pubblica luce, mentre la sera già fugge dal cielo, con insospettata sincronia, verso il buio.
Al volgere d’ogni settimana, da anni, le sette meravigliose immobili sirene, che scrutano la via dall’emporio SZ, mutano d’abito nell’infinita vetrina, che curva i suoi pallori e prosegue, nella via Muranyi, dove quattro ulteriori silfidi condividono l’ignoto cambiamento e l’ombra. Nient’altro mai racchiude la vetrina, solo arredi bianchi e paraventi candidi sino a mezz’altezza; nessuna luce la ravviva o riscalda, nelle ore oltre il giorno, solo fioche lampadine abbandonate, accese, al fondo dei locali, ove balenano geometriche, ordinate schiere d’abiti.
Un remoto, denso, indistruttibile torpore spira dalle ignote sale: neppure per un giorno, da anni, ho visto spalancarsi l’ampia porta che reca le iniziali del nome, né quel complicato meccanismo di metalli opposto alla visione, al passaggio, all’apertura; un’eterna vigilia sfiora quelle sale, colme già nell’ombra d’un remoto rammarico e ritardo, una minaccia lenta e vasta, una sciagura immobile, lontana.
C’è chi, assiduo, sorveglia la vita delle bianche prigioniere, ne scruta la bellezza, dimentico del traffico, dell’ora, dei passanti, ne segue l’indicibile mutare, al volgere dei giorni, della luce, dei minimi eventi che la strada offre al loro sguardo di perla : nel tempo i testimoni si moltiplicano, l’osservazione, pur cauta e silenziosa, si concentra ed affina, si scorge un accadere, al di là della vetrata, un impercettibile vivere, un pallido, segreto sapere.
Si dice, ormai con solida certezza, tra chi veglia, che la quarta prigioniera muova di frequente gli occhi, tesa, nell’annuncio d’un passo, d’un abbrivio, d’un gesto più preciso, e guardi, verso la stazione, il dorso della galleria, la vittoria alata, i pennoni, dove spesso la sera s’adunano le nubi, raggiunte ancora dalla luce.
A volte, un vento bianco, cieco, batte gli intonaci scuri, la polvere, i binari stupiti, le pozzanghere : allora i suoi occhi s’abbassano, pensosi, sfiorano materie sconfitte, in fuga tra i selciati, il collo appena s’inarca in un moto di rifiuto, trema la selvaggia chioma nera.
Già ora se n’è certi: dovrà venire, inesorabile, il giorno del loro fuggire, ancora è lontano, più avanti, invisibile nelle foschie del futuro, senza nome o cifra noti, ma verrà : passando nella strada, guardando, le ho viste oggi più vicine, protese verso il vuoto, i venti della via, ferme accanto al vetro, e sospese, a strane pose d’assalto, e d’agguato, quasi pronte alla furia delle cose, all’urto del presente, abili alla vita, consapevoli del moto, e d’ogni minimo fatale gesto necessario: una folla d’ombre si macera fedele nell’attesa, stabilisce segreti turni di soccorso, veglie insospettabili alla pace del quartiere, transiti ordinati ed incessanti: ogni giorno s’affinano i contatti, cenni e sguardi più precisi moltiplicano intese, fissano progetti, tessono la trama del futuro, l’infinito spazio sognato nella quiete, la fulminea geometria di gesti e di frantumi, calcolata già per l’urto il volo i passi, l’annunciata meraviglia d’ogni loro fragile avanzare.
Verrà, senza lasciar distinguere la soglia dell’evento, quell’attimo impensabile, infisso nel presente come un grido, un solido arrestarsi delle cose: verrà, quell’immenso stupore, all’unanime boato di vetri che si spezzano, al loro passo irreparabile nel vuoto, all’improvviso ritrovare gesti sospesi per la vita, forse minime parole, fragili sussurri, lenti nomi della gioia: fuggiranno, sì, per sempre, all’apparire della luce verso il giorno, alla fresca città che si risveglia, per conoscere le brezze dell’alba lungo il fiume, la voce delle chiatte cariche di buio, l’alito invisibile dell’acqua, che soffia sulle rive i palpiti del viaggio, l’infinita silenziosa libertà, senza risposte o vane ricompense, il puro assistere alle cose senza tempo, esentate ormai dalla sorte, dal calcolo cieco degli anni, dall’immobile cifra del presente, già ignote al destino, già perdute, anche per noi, con l’ignara voce del domani a chiamarle invano dentro i giorni.