TENNIS: Marin Čilić, l’uomo dei miracoli da Međugorje

Non crede ai miracoli, Marin Čilić. Ma li sa fare. Sarà perché è nato a Međugorje, sarà perché è passato per la selva oscura della squalifica per doping e in un anno ne è uscito a rivedere le stelle. A New York, nella terra delle opportunità, la ricerca della felicità del croato di Bosnia ha trovato la meta e la partenza, un arrivo e un nuovo inizio. Čilić, che lunedì ha centrato contro Tsonga nei quarti di finale la sua dodicesima vittoria di fila allo US Open, ha vissuto un 2014 da record. Ha migliorato il best ranking, superato i 700 ace e vinto per la prima volta in carriera più di 50 partite in un anno. Ha centrato il titolo a Zagabria, Delray Beach e Mosca e conquistato il suo primo Slam nella prima finale senza uno dei Big Three (Federer, Nadal, Đoković) in campo. A Flushing Meadows, sulla collina delle ceneri, dove i bookmakers quotavano la sua vittoria 100-1 all’inizio del torneo, ha vinto 10 set di fila, ha dominato Berdych, Federer e Nishikori e scritto un indimenticabile pezzo di storia.

La magia si completa di lunedì, con coach Goran Ivanišević a festeggiare come e più di quando c’era lui sul campo di Wimbledon, in un altro lunedì di delirio, il titolo più straordinario dai tempi del successo di Arthur Ashe su Jimmy Connors nel 1975. E la festa a Zagabria è dilagata come quella sera del 2001, quando 250 mila persone si ritrovarono per abbracciare l’eroe che rientrava in patria col trofeo di Wimbledon.

Gli ha cambiato la vita, Ivanišević, ha fatto di un ragazzo che ha scoperto il tennis per caso in un futuro campione. Međugorje, infatti, non è certo una città molto sportiva, non è proprio il posto ideale per praticare questo sport. Non a caso, i primi campi sono stati costruiti solo nel 1991. Ma quattro anni dopo, nel 1995, sua cugina Tanja passa a trovarlo dalla Germania. È con lei che comincia a praticare il tennis regolarmente, anche perché quell’area dei Balcani non è troppo toccata dallo scoppio della guerra. Con loro c’era anche Ivan Dodig, diventato un buon tennista e uno dei migliori amici di Marin. Nel 2002, visti i suoi buoni risultati, la Federazione gli propone di andarsi ad allenare al centro tecnico di Zagabria. Qui incontra per la prima volta Ivanišević. Si allenano più volte insieme, poi la leggenda di un’intera nazione lo presenta a Bob Brett, il tecnico australiano che gestisce un’accademia a San Remo e che ha portato Becker a conquistare Wimbledon nel 1991. Dopo sei mesi il tennis diventa la sua priorità assoluta.

Brett ha apprezzato non solo il potenziale tecnico, soprattutto il rovescio, che senza dubbio rappresenta il suo punto di forza, ma anche la solidità mentale del ragazzo. «Sapeva muovere l’avversario, dettare gli scambi anche senza potenza. Aveva già una buona comprensione del gioco e del campo. In più, è abile, è preparato al duro lavoro, ed è questo che fa la differenza. Impara presto, è molto analitico, perciò è facile lavorare con lui», spiegava in un’intervista per il sito dell’ATP.

La squalifica per doping porta alla rottura con il coach che l’ha portato al primo titolo in carriera e all’ingresso in top 10. Viene sospeso per la positività a una sostanza, questa la sua difesa, contenuta nelle zollette di zucchero comprate dalla mamma a Montecarlo, diverso tempo prima del test antidoping (e questo farebbe presupporre che non ci siano legami tra l’assunzione e il miglioramento della prestazione sportiva). Resta però una macchia, sulla reputazione del sistema. A Wimbledon 2013, infatti, annuncia il ritiro prima del secondo turno per un infortunio al ginocchio. Dopo pochi giorni, però, si scoprirà che si tratta di una versione di comodo per coprire la sua sospensione cautelare in attesa delle controanalisi.

«Sicuramente, oggi, sono più forte – ha detto dopo il rientro nel circuito alla Gazzetta dello Sport – Qualsiasi cosa succederà d’ora in poi nel tennis non potrà mai essere peggio di quei momenti di dubbi sul futuro». Il ritorno ha aperto nuove prospettiveIvanišević, l’uomo da 10.183 ace in 766 partite, ha identificato subito i difetti nel servizio di Čilić. Durante una sessione di allenamento, gli suggerisce di lanciare la palla più in avanti e piegare meno le ginocchia. I miglioramenti sono immediati. E con la maggiore fiducia nel servizio, cambia anche l’atteggiamento mentale con cui affronta lo scambio. È più lucido, meno passivo, più propositivo. E a New York sembra trovare una magia speciale. Perché, come si dice, quel che non uccide, fortifica.

Photo: Marianne Bevis (Flickr)

Chi è Alessandro Mastroluca

Alessandro Mastroluca scrive di sport da dieci anni. Collabora con Fanpage.it, Spazio Tennis e tennis.it. Segue per l'agenzia Edipress l'inserto settimanale sulla Serie B del Corriere dello Sport. È telecronista per Supertennis e autore di La valigia dello sport (Effepi), Il successo è un viaggio. Arthur Ashe, simbolo di libertà (Castelvecchi) e Denis Bergamini. Una storia sbagliata (Castelvecchi).

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