REP. CECA: L’ultimo saluto a Vaculík, l’antieroe del “Manifesto delle Duemila Parole”

Un gruppetto di uomini in giacca e cravatta è uscito con la bara in spalla dalla gremitissima chiesa di San Venceslao di Brumov, arrivando fino al cimitero del paese. Qui è avvenuta la tumulazione, accompagnata da canti popolari di musicisti in abiti tipici e dalla scopertura della tomba realizzata dallo scultore Otmar Oliva, contenente l’epitaffio “sono stato qui e forse tornerò ancora”.

E’ stato questo il lungo addio che il popolo ceco ha voluto riservare a Ludvík Vaculík, scrittore, giornalista ed intellettuale a tutto tondo, protagonista della Primavera di Praga del 1968 ed autore di alcune tra le più significative opere di dissenso al regime cecoslovacco.

Ludvík Vaculík nacque proprio a Brumov, cittadina della regione di Zlín, da una famiglia di carpentieri. Dopo aver lavorato in una piccola industria di scarpe, al termine della Seconda Guerra Mondiale decise di trasferirsi a Praga. Nella capitale cominciò a farsi conoscere come scrittore e giornalista, nonché comeintellettuale attivo all’interno del Partito Comunista.

Con il passare degli anni, tuttavia, la sua insofferenza verso il controllo culturale operato dal KSČ crebbe, fino ad esplodere nella seconda metà degli anni Sessanta. E’ infatti nel 1966 che il giovane scrittore pubblicò la sua prima opera letteraria, L’Ascia, sottile critica ad un regime capace di distruggere a colpi d’accetta l’entusiasmo di qualsiasi giovane di sinistra. L’anno seguente, invitato al Quarto Congresso dell’Unione degli Scrittori, Vaculík si lanciò in un accorato discorso contro i vertici del partito, finendo per esserne espulso.

Sono anni caldi. La Primavera di Praga è nell’aria, il governo di Novotný in bilico, e saranno proprio le parole di Vaculik a dargli la spinta finale. Duemila parole, per la precisione, rivolte ad operai, contadini, scienziati, artisti e qualsiasi altra persona (così recita il titolo del testo per intero).

Il Manifesto delle Duemila Parole nasce come dichiarazione aperta di dissenso nei confronti di un Partito che aveva smesso di occuparsi della cosa pubblica e che aveva trascinato il paese in un’apatia morale e spirituale senza precedenti. Questo documento venne pubblicato il giorno dopo l’abolizione della censura, fortemente voluta dal nuovo governo Dubček, e raggiunse in brevissimo tempo le 100.000 sottoscrizioni. Non solo la cerchia degli intellettuali, ma tutto il popolo cecoslovacco si rispecchiò in quel breve testo che – bisogna sottolineare – non aveva assolutamente un carattere eversivo, quanto piuttosto diammonimento contro il declino umano impresso dal regime.

Vaculík, infatti, nonostante lo scontro aperto con i dirigenti del Partito, non aveva mai smesso di credere nella sua necessarietà (“i comunisti hanno organizzazioni strutturate all’interno delle quali dobbiamo sostenere l’ala progressista. Hanno funzionari esperti, hanno infine ancora in mano le leve e i bottoni decisivi”). Tuttavia, eraimportante che l’ala progressista del partito prendesse carico del governo del paese, riportando al centro dell’azione l’onestà, l’uguaglianza, il rispetto dei principi e l’indipendenza dalle potenze straniere.

Il Manifesto era dunque un invito esplicito a chi, dall’interno del KSČ, avrebbe potuto risollevare le sorti della Cecoslovacchia con una rinnovata ed avveduta via politica. Un socialismo dal volto umano che, con la Primavera di Praga, sembrava sul punto di poter sbocciare.

Contrariamente alle aspettative, però, le Duemila parole finirono per toccare con maggiore forza l’ala conservatrice del partito, ed arrivarono con tutta la loro insopportabile forza fino al Cremlino, risvegliando il pugno duro della “dottrina Breznev”.

Probabilmente lo stesso Vaculík non mai avrebbe immaginato che quel Manifesto potesse provocare un effetto così devastante. Forse, non l’avrebbe neanche voluto, perché obiettivamente la reazione fu tanto grande e violenta da far sprofondare il suo paese in una condizione ancor peggiore di quella di partenza. Vaculík non si era mai erto a rivoluzionario e ad aizzatore di folle. Al contrario, la sua azione può essere inquadrata in un “antieroismo sisifico” basato sulla morale, sulla costanza e sulla resistenza costruita con il lavoro quotidiano e silenzioso.

Sarebbe stato così per molti anni a venire, quando lo scrittore, condannato a vedere ogni sua opera bandita, decise di fondare la casa editrice clandestina Petlice. Tramite questa, Vaculík riuscì a far emergere e diffondere all’estero le sue nuove opere (Cavie, Il libro dei sogni boemo, Una tazza di caffè con il mio interrogatore) e quelle di altri illustri compagni di resistenza, tra cui Václav Havel.

Interessante è il rapporto instauratosi con quest’ultimo, non sempre lineare. In Osservazioni sul coraggio(1979), Vaculík si chiede se valga la pena rischiare la prigione per la difesa della libertà, e se Charta 77 possa finire per produrre una nuova ondata negativa sulla condizione del paese. Anche in questa occasione emerge la figura del maestro, sicuramente più maturo ed avveduto rispetto a dieci anni prima, sostenitore di una resistenza senza picchi e lontana da ogni forma di inutile eroismo. Vaculík vedeva infatti nel lavoro fatto con passione, nell’incorruttibilità quotidiana e in ogni gesto di buona volontà i semi stessi della resistenza. Inevitabile fu dunque lo scontro (intellettuale) con il carattere più irruento e l’attivismo politico più spinto di Havel.

Alla fine, comunque, entrambi sarebbero riusciti ad assaporare il frutto del loro impegno decennale. Certo è che, mentre Havel lo avrebbe fatto da primo Presidente di una democratica Repubblica Ceca, Vaculik,coerentemente con la propria indole, si sarebbe accontentato di continuare a fare quello che aveva sempre amato e per cui si era contraddistinto: scrivere.

Pubblicherà altri libri e, grazie ad una colonna affidatagli dalla rivista Lidové Noviny, onorerà il giornalismo ceco con editoriali politici sopraffini, fino alla fine dei suoi giorni terreni. Una fine che, forse, un giorno potrebbe trovare un nuovo epilogo, proprio come suggerisce la frase della sua bellissima tomba.

Byl jsem tu a možná zas přijdu.
Sono stato qui e forse tornerò ancora.

Chi è Vittorio Giorgetti

Laureato in Relazioni Internazionali e Studi Europei all'Università di Firenze con una tesi sul rapporto odierno tra i Balcani Occidentali e l'Unione Europea. Dopo due brevi collaborazioni con l'Institute of International Relations di Praga e lo European University Institute di Firenze, attualmente si occupa di europrogettazione e cooperazione e sviluppo. Parla inglese, spagnolo e francese.

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Un commento

  1. Silvano Calzini

    Bel pezzo su un bel personaggio. Grazie.

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