Wislawa Szymborska. La poesia che raccoglieva il dubbio e restituiva la meraviglia

A chi già la conoscesse non posso dire nulla più di quanto non abbia scoperto da solo leggendo i suoi versi; a chi, invece, non l’ha mai nemmeno sentita nominare, spero di lasciare la curiosità di andarla a cercare, perché non c’è niente di meglio che leggere le sue poesie per ritrovare un po’ di se stessi. Non è per un anniversario che vorrei parlare di Wislawa Szymborska, né per commemorare nulla di lei che già non sia stato detto, ma propongo una scelta personale di poesie senza alcuna analisi stilistico-letteraria, per mostrare la capacità che hanno le sue parole di esprimere l’inesprimibile dubbio di ogni ricerca che coinvolge la condizione umana. Nasce a Kòrnik, in Polonia, il 2 luglio 1923 e la sua prima poesia, intitolata Cerco la parola, è stata pubblicata a Cracovia il 14 marzo 1945 nel settimanale Walka, supplemento del giornale Dziennik polski.

La sua prima raccolta di poesie, Dlatego żyjemy (Per questo viviamo) viene pubblicata nel 1952, e molte altre vengono a seguire, mentre lavora come redattrice per alcune riviste letterarie. Di sé stessa scrive, nella poesia Elogio dei sogni: «In sogno dipingo come Vermeer. Parlo correntemente il greco e non solo con i vivi. Guido l’automobile, che mi obbedisce. Ho talento, scrivo grandi poemi. Odo voci non peggio di santi autorevoli. […] Sono, ma non devo esserlo, una figlia del secolo». Nel 1996 vince il Nobel per la Letteratura e nel suo discorso di ringraziamento parla del ruolo del poeta nel mondo. A proposito dell’ispirazione, a chi le chiedeva che cosa fosse, rispondeva che non era certo un privilegio di poeti e artisti ma che apparteneva a tutti coloro che avevano scelto e risposto al loro lavoro con amore ed immaginazione, che fossero dottori, insegnanti o giardinieri. Qualsiasi cosa fosse l’ispirazione, essa nasceva dalla curiosità, da un continuo domandare, domandarsi e rispondersi di non sapere. La sua ultima pubblicazione, uscita in Italia nel 2009, s’intitola La gioia di scrivere (edita da Adelphi) e raccoglie tutte le poesie scritte dal 1945 al 2009. Muore a Cracovia l’1 febbraio 2012.

Vorrei cominciare con una poesia, Ogni caso, titolo dell’omonima raccolta pubblicata nel 1972, che racconta la storia di una coincidenza declinandola in infinite, piccole, sfumature del caso con una semplicità disarmante che non conosce banalità. «Poteva accadere. Doveva accadere. È accaduto prima. Dopo. Più vicino. Più lontano. É accaduto non a te. Ti sei salvato perché eri il primo. Ti sei salvato perché eri l’ultimo. Perché da solo. Perché la gente. Perché a sinistra. Perché a destra. Perché la pioggia. Perché un’ombra. Perché splendeva il sole». E continua, ancora, snocciolando immagini ad intermittenza, come fossero le maglie di una rete perfetta che però, da qualche parte, ha un buco, un buco soltanto ma sufficiente affinché tutto possa entrare o uscire, all’improvviso, rivoltando la vita in un istante.

Ognuno potrà leggere ciò che desidera nelle trame dei suoi versi. A volte si immagina un evento della vita che ci ha segnato profondamente, magari un amore, forse la morte di una persona cara, oppure soltanto un momento in cui abbiamo preso coscienza che tutto era lì: la vita appesa ad un filo leggerissimo ed inafferrabile, meravigliosamente bello e spaventoso al tempo stesso. «Che sarebbe accaduto se una mano, una gamba, a un passo, a un pelo da una coincidenza. Dunque ci sei? Dritto dall’animo ancora socchiuso? La rete aveva solo un buco, e tu proprio da lì? Non c’è fine al mio stupore, al mio tacerlo. Ascolta. come mi batte forte il tuo cuore». E non c’è niente da dire, soltanto che queste parole delicate, discrete, ci riappacificano con il mondo, e può rassicurarci il pensiero che sebbene sia soltanto il caso, inaspettato e disarmante, il signore assoluto del nostro destino, a noi almeno è data la meraviglia e il piacere d’incantarci, a volte, a guardarlo così com’è, nel suo perfetto intreccio di coincidenze. L’ultimo verso è uno dei più belli che siano mai stati scritti, Benedetta Tobagi ne ha tratto il titolo del suo libro dedicato al padre, Walter Tobagi, giornalista assassinato nel 1980 dai terroristi della Brigata XXVIII marzo.

Wislawa ha l’ironia che si schermisce di fronte alla serietà, quasi che non si sentisse adeguata ad esprimerla, propria soltanto di chi ha la sensibilità per guardare il mondo e raccontarlo senza la pretesa di dire qualcosa di più che già non vi si trovi. Ed è la leggerezza il dono che ci lascia, ad alleviare il senso di pesantezza che accompagna ogni consapevolezza, senza saper rispondere alle domande ma trovando infiniti modi per esprimerle. Non vuole cercare un senso, un messaggio da trasmettere, ma scoprire che per ogni pensiero che non conclude si aprono infiniti spazi dentro e fuori di noi.

«In caso di pericolo, l’oloturia si divide in due: dà un sé in pasto al mondo, e con l’altro fugge. Si scinde in un colpo in rovina e salvezza, in ammenda e premio, in ciò che è stato e ciò che sarà». L’oloturia non è altro che un cetriolo di mare e questa poesia si intitola Autotomia, una strategia di difesa che hanno alcuni animali che possono automutilarsi lasciando una parte del corpo non vitale per ingannare il predatore e mettersi in salvo, come le lucertole con la coda. Dalla natura Wislawa prende spunto per parlare dell’uomo: in una risata sta la salvezza, nel prendersi gioco di noi e del caso, nella debolezza che si fa un vanto e si adatta e rigenera, reinventandosi sempre. «Se esiste una bilancia, ha piatti immobili. Se c’è giustizia, eccola. Morire quanto necessario, senza eccedere. Rinascere quanto occorre da ciò che si è salvato. Già, anche noi sappiamo dividerci in due. Ma solo in corpo e sussurro interrotto. In corpo e poesia. Da un lato la gola, il riso dall’altro, un riso leggero, di già soffocato».

In memoria delle vittime dell’11 settembre scrive pochi versi, brevi, una fotografia di quel volo soltanto: «Ognuno è ancora un tutto con il proprio viso e il sangue ben nascosto. C’è abbastanza tempo perché si scompiglino i capelli e dalle tasche cadano gli spiccioli, le chiavi. Restano ancora nella sfera dell’aria, nell’ambito di luoghi che si sono appena aperti. Solo due cose posso fare per loro descrivere quel volo senza aggiungere l’ultima frase». Della morte ha scritto: «Non c’è vita che almeno per un attimo non sia immortale. La morte è sempre in ritardo di quell’attimo. Invano scuote la maniglia d’una porta invisibile. A nessuno può sottrarre il tempo raggiunto».

Può descrivere con intensità gli eventi più tragici tanto quanto i gesti più comuni, senza mai perdere la capacità di dare spessore, bilanciando il peso delle parole senza guastarne la meraviglia dell’insieme. Per esempio una visita medica, il meccanico e disattento rituale con cui ci si spoglia, l’attesa che ci riempie mentre aspettiamo un responso: «Ti togli, ci togliamo, vi togliete cappotti, giacche, gilè, camicette di lana, di cotone, di terital, gonne, calzoni, calze, biancheria, posando, attendendo, gettando su schienali di sedie, ante di paraventi; per adesso, dice il medico, nulla di serio si rivesta, riposi, faccia un viaggio, prenda nel caso, dopo pranzo, la sera, torni fra tre mesi, sei, un anno, vedi, e tu pensavi, e noi temevamo, e voi supponevate, e lui sospettava».

La poesia di Wislawa è di tutti e per tutti, parla per immagini umili, attraversa la quotidianità raccogliendoti, puoi guardarla attraverso i suoi occhi eppure ti lascia lo spazio per riempirla, farla tua, con empatia profonda. T’incanta lasciandoti in silenzio, perché alla fine e all’inizio di tutto è importante che resti il silenzio ad avvolgerti e la meraviglia a lasciarti sospeso, poiché per la poesia non c’è vita, né cosa del mondo che possa dirsi ordinaria o banale. Nell’incipit di Cent’anni di solitudine Gabriel Garcia Marquez descrive l’origine di Macondo, la città in cui ambienta il suo romanzo, per farlo risale al tempo in cui «Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito», credo sia qualcosa di molto simile alla poesia di cui parla Wislawa Szymborska, che restituisce la meraviglia alle cose del mondo, come se le rinominasse per la prima volta.

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