Intervista a Emil Costantinescu, il presidente che portò la Romania in occidente

Il crollo del Muro di Berlino 25 anni dopo. Un cambiamento epocale che ha riguardato l’intero occidente, e non solo i Paesi della ex cortina di ferro che Winston Churchill vide innalzarsi inesorabilmente nel 1945. Un mese dopo scoppiò la rivoluzione in Romania. In pochi giorni il dittatore Ceaușescu, che governava il Paese con il pugno di ferro da oltre 40 anni, fu estromesso, processato e fucilato. L’ex presidente rumeno, Emil Costantinescu, ricorda quegli avvenimenti con un po’ di nostalgia, soprattutto a causa delle polemiche. Secondo alcuni cronisti e commentatori rumeni, primo fra tutti il giornalista Grigore Cartianu, quella rumena fu una rivoluzione a metà, seguita da un colpo di Stato orchestrato dai sovietici e dal gruppo di potere interno a Ceausescu. La rivoluzione di Timisoara, dalla quale tutto ebbe inizio, sarebbe stata in qualche modo incoraggiata dall’esterno, anche se l’autore non nega che vi fu un’effettiva spinta popolare. Il problema, secondo Cartianu, è che i rumeni sono stati delle pedine inconsapevoli una controrivoluzione ben orchestrata.

«È  vero solo in parte». Costantinescu non ha dubbi in proposito e rigetta le teorie di tipo complottistico che avrebbero visto i sovietici giocare un ruolo fondamentale in questo avvenimento. La rivoluzione rumena, a suo avviso, «andrebbe studiata veramente, ed in modo obiettivo». Quest’anno darà alle stampe un libro basato su alcuni documenti e testimoni oculari. A suo avviso la rivoluzione fu un evento incredibile soprattutto perché «portò in occidente nuovi valori morali, un ethos». E aggiunge: «Oggi la Romania è un Paese più maturo. Abbiamo trasformato la pedagogia della sofferenza in riconciliazione».

Presidente, cosa ricorda di quei giorni dell’ ‘89?

«In realtà quasi niente. In Romania non è stata pubblicata nessuna notizia inerente alla caduta del muro. Ho cominciato ad avere qualche sommaria informazione solo durante la notte, da “Radio Europa Libera”.[1] L’unica cosa della quale si parlava in quel momento era infatti la rielezione di Ceaușescu come “Conducător” (duce, ndr) all’ultimo congresso del Partito Comunista. Gli arrivavano continue lettere di sostegno da tutto il mondo. Sembrava che non esistesse altro di cui parlare, e nulla al di fuori di lui». 

Quale fu l’impatto di quell’evento in Romania?

«Vuole una risposta concisa? All’inizio nullo».

Nonostante la svolta rappresentata dalla perestroika e la glasnost di Gorbaciov, la Romania era l’unico dei paesi satelliti che si mostrava restìo al cambiamento. Come fu possibile che in poco più di un mese tutto cambiasse di colpo?

«Non è molto semplice risponderle. La Romania rappresenta un caso, come dire,  speciale, che alla fine diventa addirittura tragico. Quando Gorbaciov annunciò la perestroika (riforme economiche ndr) e la glasnost (trasparenza ndr) aveva lo scopo di mantenere in vita il sistema e l’impero sovietico, cercando di riformarlo. L’obiettivo era renderlo più competitivo nei confronti dell’occidente. Da un lato la popolazione sperava in un miglioramento delle condizioni di vita. D’altro canto per l’élite intellettuale sovietica, la cosiddetta intellighenzia, la glasnost ha rappresentato un fatto nuovo. Per la prima volta, dopo tanti decenni, si prospettava la possibilità di poter parlare liberamente. Senza avere paura. Noi, che eravamo dei Paesi satelliti, l’Europa, e il mondo intero, abbiamo riconosciuto il grande cambiamento che stava avvenendo. In Urss si stava elaborando un nuovo progetto politico di riforme radicali. In altre parole, l’instaurazione della democrazia e di un’economia di mercato di tipo capitalista. Vorrei porre l’accento anche un altro punto: la classe dirigente di allora è stata intelligente soprattutto perché ha avuto la capacità di presentare il suo progetto politico alle masse popolari, riuscendo a convincerle. Fu fantastico. E soprattutto in Romania, dove si cominciò a riscoprire antichi valori».

Ovvero?

«Anzitutto l’identità nazionale e il sentimento religioso. Ecco i nuovi pilastri sui quali si poteva ricominciare, e che erano stati tabù nel sistema sovietico, dove l’ateismo imperava e tutte le chiese erano chiuse. Tutto questo in Romania ha avuto un impatto incredibile. La nostra gente ha cominciato a riscoprire se stessa, le proprie radici storiche, la memoria collettiva dopo decenni di repressione dove, solo nell’Unione Sovietica, sono stati uccisi 20 milioni di persone. Poi in meno di un anno l’impero più criminale della storia si è dissolto. È stato un fenomeno unico nella storia del mondo, paragonabile solo alla nascita del cristianesimo e dell’impero Romano, per intenderci. Anche se, stavolta, tutto è successo molto più in fretta».

E in Romania?

«La Romania, come le dicevo, è stata un caso particolare. La stessa dittatura di Ceaușescu era un fenomeno peculiare. Da un lato Ceaușescu era stato fautore di una sorta di nazional-comunismo che si basava sull’opposizione all’Urss in nome del nazionalismo romeno. Ma si trattava, le assicuro, di una falsa opposizione, e in questo il dittatore era molto abile. Ceaușescu si rifiutò di appoggiare l’invasione sovietica in Cecoslovacchia, che aveva lo scopo di reprimere la Primavera di Praga enunciando il diritto di ogni Paese di costruire il proprio destino.

In Romania, dove da secoli esisteva la paura dei russi e un profondo sentimento anti-sovietico, dopo il ’45 tutto questo fece presa. Me lo ricordo molto bene. In quel momento eravamo preparati a una possibile invasione sovietica e tutti sembravano essere assai vicini a Ceaușescu. Anche gli americani e l’occidente hanno usato il suo nazionalcomunismo, che però, lo ripeto, era solo una falsa opposizione all’Urss».

In che senso?

«Quando Ceaușescu andò in Corea del Nord ne rimase molto impressionato, fino a prenderla come modello. In poco tempo instaurò una dittatura feroce, che si basava su un sistema di sorveglianza molto efficiente, soprattutto grazie alla Securitate (la polizia segreta rumena ndr). Era la più numerosa di tutti i Paesi comunisti, perfino della Stasi se rapportata alla popolazione. Adesso sappiamo tutto questo. Le dico anche un’altra cosa: sono stato io a promulgare la legge che ha consentito l’accesso ai dossier della polizia segreta. Eravamo tutti sorvegliati. E il numero dei collaboratori e delatori era enorme. C’era però una differenza sostanziale rispetto all’Unione Sovietica. Lì gli oppositori politici erano minacciati e arrestati, ma dopo aver fatto qualcosa. In Romania si finiva in carcere sulla base del solo sospetto, e senza aver nemmeno commesso il presunto “reato”. E non si tratta di un elemento banale.

Basti ricordare la vicenda del dissidente Gabriel Andrescu, uno dei nostri fisici più apprezzati. Fu arrestato per aver scritto una lettera a Europa Libera nella quale denunciava l’apparato repressivo del regime comunista rumeno. Tenga conto che quella radio era l’unico modo che avevamo di comunicare col mondo esterno. Andrescu, comunque, non si fece intimidire, ed anzi, riuscì a inviare una seconda lettera. Mi ha poi raccontato di aver ricevuto una telefonata di una signora che intendeva firmare il suo appello, e che rimase a parlare con lui al telefono nonostante fosse stata avvisata che questo era controllato. Alla fine i due decisero di incontrarsi. Il giorno dell’appuntamento la Securitate entrò in azione. E così Andrescu poté assistere in diretta all’arresto della signora che, badi bene, non aveva ancora firmato il quel documento. Giusto per ricordarle come si viveva allora. E questo spiega anche  altre cose».

Per esempio?

«Per esempio, perché in Romania non mai c’è stata la possibilità di costruire negli anni un movimento politico di protesta paragonabile a Solidarnosc in Polonia o a Charta 77 in Cecoslovacchia. Pensi anche ai moti di Berlino est, ai movimenti ecologisti nei Paesi Baltici e in Bulgaria. Da noi un sindacato libero esisteva ma è stato subito ridotto al silenzio. Un vero progetto politico di riforme radicali da parte dell’entourage intellettuale rumeno si è potuto realizzare solo dopo la caduta di Ceaușescu. Ma poi abbiamo dovuto aspettare altri sette anni prima di poter avere una vera svolta democratica, con elezioni davvero libere».

Eppure, presidente, appena un mese dopo la caduta del Muro in Romania iniziò la rivoluzione e Ceaușescu fu liquidato. Secondo lei era un fatto prevedibile?

«Assolutamente no e specialmente in Romania. E tantomeno era prevedibile la fine dei regimi comunisti negli altri Paesi satelliti e il crollo della stessa Unione Sovietica, avvenuta dall’interno. Le dico di più. L’occidente non ha avuto alcun merito in questo grande processo storico. Questa è una verità che da voi si continua deliberatamente a occultare, anche dopo 25 anni. Samuel Huntington, uno dei più celebri analisti politici del mondo occidentale, con il quale ho avuto la possibilità di parlare molte volte, ancora nell’agosto dell’‘89 scriveva che l’Unione Sovietica sarebbe durata altri vent’anni.

L’occidente riteneva allora di dover fronteggiare altre minacce. Per esempio, la guerra stellare cominciata da Ronald Reagan, che prosciugò parecchie risorse economiche ai sovietici. C’era poi anche la questione dei diritti umani prevista dal protocollo di Helsinki. E l’unico modo per capire cosa stesse succedendo, non dall’altra parte della cortina di ferro, ma in Romania, era mettersi in contatto con Europa Libera.

Le racconto un aneddoto personale. Ho passato quasi tutta la mia vita nell’università. L’ambiente universitario di allora, e quello di Bucarest in particolare, era una specie di torre d’avorio. Non potevamo comunicare con nessuno, e specialmente all’estero.  Il mondo umanistico era quello più soggetto alla censura e all’isolamento, mentre quello scientifico riusciva ad aprire di tanto in tanto qualche spiraglio. Le facoltà di geologia e matematica, infatti, si trovavano alle due estremità della hall dell’edificio universitario. Ma se un professore di matematica esprimeva delle posizioni critiche nei confronti del regime, lo si apprendeva solo grazie a Europa Libera. Eppure eravamo tutti lì, nello stesso palazzo, ma in tanti avevano paura di parlare, nessuno voleva rischiare la pelle.

Comunque, la guerra stellare Usa-Urss, il protocollo di Helsinki e la voce critica di Europa Libera sono dei fattori non sufficienti a  spiegare il crollo del comunismo. L’occidente si rifiuta ancora oggi di accettare tutto questo. Nel 1991, quando vinsi un concorso come professore aggiunto, le più prestigiose università americane mi hanno invitato ad alcune conferenze. Mi resi subito conto che l’argomento dominante di quegli incontri era la guerra in Vietnam. Nessuno parlava di ciò che stava accadendo in Romania, sotto i loro occhi. Molti stentavano a credere che avevamo vissuto per decenni sotto il giogo di una dittatura feroce. Mi guardavano tutti con aria stralunata, come se fossi un extraterrestre. Alla fine ho rinunciato.

Le do un’altra chicca. Il primo presidente democratico dell’Ungheria, Árpád Göncz, un carissimo amico, mi ha detto che subito dopo la caduta del Muro rilasciò un’intervista a un giornale svizzero dove raccontava il suo arresto, nel 1957, ad opera della polizia politica. Pensi: sono entrati in casa sua di notte e l’hanno portato via così in fretta che non ha avuto nemmeno il tempo di prendersi lo spazzolino da denti. Ma il bello è che il giornalista svizzero gli ha poi chiesto come fosse possibile che nelle prigioni ungheresi non ci fossero spazzolini da denti. Poco tempo dopo parlai con Göncz, il quale mi confidò che quell’intervista gli era sembrata priva di senso.

Gli europei sembravano non capire cosa sia stato iI comunismo e il suo apparato repressivo. Come potevi spiegare che molti romeni sono stati isolati in una cella, senza luce e con catene ai piedi, senza poter comunicare con nessuno? Le prigioni sovietiche erano luoghi di sterminio. Anche inglesi, francesi, e in parte gli italiani, hanno avuto lo stesso atteggiamento di sufficienza. Uno dei pochi politici del suo Paese che hanno mostrato di capire di cosa stessi parlando è stato Andreotti, forse perché aveva vissuto l’incubo del fascismo.

Del resto, ancora prima che l’Unione Sovietica si dissolvesse l’unica idea politica degli americani era quella di avere fiducia in Gorbaciov. Sempre Göncz mi ha confidato che quando Bush è andato in Europa centrale raccomandò ai leader politici di quei Paesi di non fare nessuna riforma e di avere fiducia nel leader sovietico. La verità è che gli americani avevano paura del cambiamento, del nuovo, e preferivano avere degli interlocutori come Gorbaciov e Shevarnadze, dei quali potevano fidarsi. E guardi che non le sto raccontando aneddoti presi da qualche manuale di storia. Io ho parlato con ciascuno di loro».

Torniamo alla Romania e alla rivoluzione. Cosa ricorda di quei giorni?

Tutti i movimenti del 1989 sono stati espressioni spontanee di rivolte popolari. Un momento astrale nella storia dell’umanità. Milioni di persone sono state disposte a lottare e morire per degli ideali. Non per salari e beni materiali, ma in nome della democrazia, della libertà di stampa e di espressione. Ed è questo ciò che è avvenuto a Bucarest il 21 dicembre (1989 ndr). Mille persone sono andate in piazza chiedendo a gran voce elezioni democratiche e libertà di stampa. In modo pacifico. Ma immediatamente sono state circondate dall’esercito e dalla Securitate. E ci sono stati i primi morti. I soldati sparavano anche acqua gelata, e le ricordo che era dicembre. Ma nessuno ha mollato. Una compagna di classe di mia figlia è stata sparata da un cecchino. Mio figlio ha innalzato una barricata con altri studenti ed è rimasto lì fino a notte fonda, fianco a fianco con i manifestanti. Poi è riuscito a tornare a casa. Prima di mezzanotte si contavano già 3000 arresti. Molti sono stati portati nelle caserme e torturati. Ho qui accanto a me gli elenchi. Poi, a mezzanotte, poi sono entrati i carri armati. Cento morti. Il giorno dopo la piazza è stata invasa da 500 mila persone. In quel momento i carri armati si trovavano al centro. Alcuni manifestanti hanno cominciato a distribuire dei fiori ai soldati che non potevano più sparare. E qui arriviamo a un punto per me fondamentale. L’esercito non ha tradito Ceausescu. Lo stesso posso dire della polizia e della Securitate, che gli sono stati vicini fino all’ultimo. La mattina del 22 dicembre, prima di scappare, Ceausescu instaurò la legge marziale. Solo quando la popolazione entrò nel palazzo (la sede del comitato centrale, ndr), ci si è resi conto che stava fuggendo in elicottero. L’anno prossimo (2015, ndr) pubblicherò un libro sulla rivoluzione, basato sui documenti e testimoni oculari.

Proprio la rivoluzione in Romania è un argomento spinoso. Recentemente sono stati pubblicati parecchi libri, tra i quali quello di Grigore Cartianu, che hanno suscitato parecchie polemiche. Cartianu, infatti, ritiene che quella dell’ ‘89 fu una rivoluzione a metà ed  un vero e proprio colpo di Stato, preceduto da una rivolta spontanea a Timisoara in qualche modo incoraggiata da agenti sovietici e poteri esterni. Lei come la vede?

«La cosiddetta rivoluzione rumena merita di essere studiata veramente. Finora non è stato fatto, né dagli storici, né dai giornalisti. Chi non ha vissuto quel periodo non può capire come sono andate le cose. Sembra assurdo concepire, in una società plasmata dai soldi e dal successo, che migliaia di persone che non si conoscevano abbiano lottato per degli ideali comuni. Ecco che allora vengono rispolverate alcune teorie come quella della cospirazione. Secondo me la rivoluzione rumena va suddivisa in due momenti distinti, e l’errore sta nel volerli accostare in modo arbitrario. Tutto inizia con la rivolta popolare spontanea di Timisoara, che si è poi estesa a Sibiu, Cluj e in altre città. Ciò avviene durante la dittatura di Ceausescu. Lì la popolazione ha vinto, ha occupato le sedi del partito comunista, ha dichiarato Timisoara città libera, ha elaborato un programma politico e ha eletto i propri leader. Ci sono stati parecchi morti, e i loro corpi sono stati trasferiti in segreto a Bucarest e inceneriti. Il problema è che nessuno entrava in Romania, i giornalisti non sapevano nulla. Pochissimi cittadini di Timisoara sono poi riusciti a raggiungere Bucarest in treno. E mentre Ceausescu era ancora all’interno della sede del comitato centrale della capitale, i manifestanti avevano già occupato la sede della televisione nazionale. Questa è la rivolta popolare alla base della rivoluzione, che finisce alle 5 del pomeriggio del 22 dicembre. Dopo la fuga di Ceausescu comincia la seconda fase, la controrivoluzione, sancita dall’accordo tra Ion Iliescu e il Ministro della Difesa Stanculescu, per formare il nuovo governo. Ma le ricordo che entrambi erano stati nominati dallo stesso Ceausescu. Questi nuovi leader hanno poi organizzato l’affaire dei terroristi e sono stati artefici di una vera e propria manipolazione. La popolazione è stata ingannata. In pratica, si è fatto credere che ci fossero alcuni terroristi fedeli a Ceausescu che volevano attaccare il nuovo potere appena costituito.

Ad oggi, però, non è stato identificato nemmeno uno di questi presunti terroristi. Nemmeno la Securitate, che sapeva qualsiasi cosa, ha potuto fornire il nome di uno solo dei fantomatici agenti sovietici di cui si parla. Io non nego che la cospirazione pro sovietica ci sia stata, ma è esistita a livello, per così dire, teorico, dei discorsi. Sappiamo che Iliescu si è incontrato segretamente con varie persone che poi si è scoperto essere degli agenti sovietici, come il generale Militaru.  Ma nessuno di loro ha mosso un dito finché Ceausescu non è scappato. Nessuno di loro ha partecipato alla rivolta popolare. Anzi, l’esercito ha ammazzato un gran numero di persone, e non ha avuto nessun merito nella caduta del regime. Posso dirle anche che ho parlato con centinaia di testimoni e nessuno di loro mi ha mai detto di essere stato influenzato dai sovietici o da altre forze oscure. La rivolta era spontanea, e non aveva leader. Solo dopo la caduta di Ceausescu i fantomatici cospiratori si sono presentati in televisione in uniforme militare, e l’esercito ha dichiarato di passare dalla parte del popolo. Oggi sappiamo molto bene che dopo il 22 dicembre e l’estromissione di Ceausescu ci sono stati molti più morti. L’esercito, comandato dal generale Militaru, ha poi distribuito armi alla popolazione. Le dico anche un’altra cosa».

Prego

«Io ero all’università con mio figlio. Quando sono entrato nella hall c’era una grande quantità di armi. Ricordo che siamo stati tutta la notte lì, a difendere la rivoluzione. Poi abbiamo anche saputo che c’erano degli studenti assiepati nei palazzi vicini che volevano sparare contro i presunti terroristi.  Sono riuscito a fermarne alcuni, ma altre volte si è sparato. Alla fine, però, io non parlerei di colpo di Stato dell’esercito contro Ceausescu. Era una situazione nella quale c’era già un vuoto di potere. Molti pensano che quella rumena sia stata la prima rivoluzione in diretta televisiva, ma in realtà sono state trasmesse solo immagini della controrivoluzione. L’esercito ha occupato la televisione diffondendo la paura di attacchi, affermando che l’acqua era stata avvelenata, che le centrali nucleari stessero per esplodere. E sa perché tutto questo è stato fatto? Perché quelli che hanno pianificato la controrivoluzione dovevano apparire rivoluzionari, pur rimanendo fedeli a Ceausescu. Ciò spiega anche perché la Romania, divenuta libera, è stata governata dalla nomenclatura comunista e dai leader criminali dell’esercito e della Securitate. In tutti gli altri Paesi la transizione dal comunismo alla democrazia è stata molto meno traumatica. Pensi alla Polonia, alla rivoluzione di velluto a Praga, alla caduta del Muro. Solo la Bulgaria  ha avuto un colpo di Stato vero, che ha estromesso Jivkov. I leader post comunisti degli altri Paesi satelliti erano prodotto delle rivolte popolari, e appartenenti al mondo della cultura: Havel era uno scrittore; Göncz era il presidente dell’ Unione degli scrittori, Lansbergis era rettore dell’Accademia di Musica; Zelev era un filosofo. In Romania, invece, il presidente e altri membri del governo avevano avuto quasi tutti una carriera politica sotto Ceausescu, primo fra tutti Ion Iliescu. Il dopo Ceausescu fu un altro regime neocomunista. Questa fu la prima democrazia rumena».

Però, Presidente, questo significa che allora Cartianu ha ragione: ci fu un colpo di Stato.

«È un po’ più complesso di così. E Cartianu sbaglia quando sostiene che la prima fase della rivoluzione sia stata provocata da sobillatori sovietici. Sono stati i membri della Securitate ad accreditare questa idea, manipolando l’opinione pubblica. Anche parte della stampa rumena è stata complice di questo inganno. Molti giornalisti, infatti, erano ex membri della Securitate, possedevano delle televisioni. Avevano le mani imbrattate».

Il processo farsa di Ceausescu e la sua fucilazione erano inevitabili? Non si sarebbe potuta trovare un’alternativa più democratica?

«Il cosiddetto processo farsa e la fucilazione di Ceausescu sono stati organizzati da suoi ex collaboratori. Noi avremmo voluto un processo vero, ma se ciò fosse avvenuto Ceausescu avrebbe subito smascherato i suoi accusatori, i quali a quel punto non avrebbero più potuto prendere il potere. La verità è che Ceausescu andava liquidato in fretta. Ecco perché il processo doveva essere fatto in fretta. Il problema è che sono stati accusati solo i coniugi Ceausescu, ma il comunismo non è stato minimamente messo sotto accusa e giudicato. Fino all’intervento dell’esercito la rivoluzione è stata pacifica, e nessuno di noi ha avuto armi. Il generale Stanculescu sapeva in ogni momento dov’era Ceausescu. Dalla fuga del 22 dicembre al giorno 25 (fu portato nella caserma di Tergoviste, ndr) lo hanno tenuto congelato per poter scatenare l’isteria collettiva dei presunti terroristi, e poi l’hanno ammazzato. E il motivo era che loro dovevano apparire come degli eroi. Questo è il processo della rivoluzione».

Non vede un parallelismo tra la morte di Ceausescu e quella di Mussolini?

«La tentazione  è forte, ma direi che si tratta di due avvenimenti diversi».

Qual è il bilancio della Rivoluzione  a 25 anni dalla caduta del muro?

«Guardi, ho appena organizzato una conferenza internazionale (tenutasi a Bucarest dal 19 al 21 novembre 2014, ndr) alla quale ho invitato i presidenti democratici dei Paesi dell’est di allora, esponenti rivoluzionari e del mondo della cultura. Una grande tavola rotonda alla quale hanno partecipato 25 giovani nati 25 anni fa. C’è stata una bellissima discussione, un dialogo molto aperto. E qui non parliamo di giornalisti, scrittori o altro, ma dei protagonisti di quei giorni che si confrontavano con le nuove generazioni. Purtroppo, la società odierna è sorda. Non è interessata a ripercorrere davvero quegli avvenimenti. Aggiungo una postilla: Gorbaciov non è potuto venire per motivi di salute. Sarebbe stato molto interessante poterlo vedere di fronte all’ex presidente lituano Landsbergis. E sa perché?».

Dica

«Durante la rivolta popolare in Lituania del 1990, i rivoluzionari, per la maggior parte studenti, occuparono la televisione nazionale. Landsbergis in quel momento, come le ho detto, era rettore dell’Accademia di Musica e leader della protesta. Quando l’unione Sovietica inviò le truppe speciali del Kgb per reprimere i manifestanti, il leader sovietico mandò un messaggio sibilino: “Pensate che ci faremo intimidire da un gruppo di musicisti?”. I musicisti hanno vinto. Queste persone sono ancora in vita e dovremmo imparare ad ascoltarle. Ma la televisione oggi rincorre solo esigenze dettate da criteri economici e di ascolto, mette una gran quantità di donne nude sullo schermo. Il pericolo è che la storia possa ripetersi. E chi non studia non potrà mai comprendere gli errori del passato. Oggi in Romania il vero tema è un altro. Non tanto la rivoluzione, ma il 1996. Lì è finito davvero il comunismo con le prime libere elezioni. Paradossalmente, abbiamo perso sette anni rispetto agli altri paesi. Il dopo Ceausescu è stato caratterizzato da un’oligarchia di tipo neocomunista. Molti di quegli esponenti politici erano ex membri della Securitate. Hanno fatto affari e concluso accordi con l’Unione Sovietica, con Milosevic in Serbia, facendo il doppio gioco. Poi la svolta del ’96, quando sono stato eletto presidente. Nei 4 anni del mio mandato ci sono state le basi per portare la Romania (tra il 2004 e 2007, ndr) prima nella Nato e poi nell’Ue. Sono state finalmente intraprese una serie di riforme che hanno aperto al libero mercato. Siamo riusciti a garantire la sicurezza della Romania, attraverso il Partenariato Strategico con gli Stati Uniti, firmato a Bucarest nel 1997 da me e da Clinton. Solo oggi i rumeni stanno cominciando a capire il significato di quell’accordo. Basta guardare a est e ai piani di revanche della Russia in Ucraina e nelle ex repubbliche sovietiche».

Vi sentite minacciati dai russi?

«Certo. Proprio per questo, grazie al Partenariato Strategico firmato con Clinton sono riuscito a inserire la Romania nell’asse che va dalla Polonia a Israele, passando per la Turchia. La nostra sicurezza è garantita dagli Stati Uniti con la base militare di Costanza e con lo scudo anti-missilistico in Oltenia».

Qual è la situazione rumena oggi?

«L’integrazione europea fa della Romania un paese stabile. Non siamo in recessione. Abbiamo avuto libere elezioni, che hanno portato il mese scorso alla presidenza un liberaldemocratico come Iohannis. Un uomo di origini tedesche e di religione protestante in un paese in cui i tedeschi sono meno dell’1%. Il nazionalcomunismo di Ceausescu è morto per sempre. Siamo stati gli unici a non inviare al parlamento europeo degli estremisti antieuropei. Solo liberali, cristiano-democratici e socialdemocratici. Democrazia ed economia godono di ottima salute. Eppure, i rumeni oggi sono scontenti».

Perché?

«Perché stiamo vivendo una crisi morale iniziata nel 2007 dopo l’integrazione nell’Ue. Da quel momento è cominciato a mancare qualcosa, uno scopo comune che ci unisse. I rumeni hanno pagato un grandissimo prezzo sociale durante il mio mandato (1996-2000, ndr). Ma hanno accettato i sacrifici perché volevano entrare in Europa, a qualsiasi costo. Oggi i rumeni hanno molta più fiducia nell’Unione Europea che nel governo. Siamo il Paese più pro-Nato di tutta Europa. Ma ripeto: la mancanza di una visione, di uno scopo comune, la divisione della società civile, la lotta cieca per i soldi e il successo stanno minando fortemente la nostra coesione morale. In un certo senso, è come se i rumeni fossero in attesa di un nuovo grande progetto politico. Anche l’Unione Europea non è immune da problemi. Si è trasformata in un complesso di burocrati, senza ethos, senz’anima.

Ecco perché le rivoluzioni del 1989 sono state un grandissimo regalo per l’occidente. Hanno fermato la minaccia sovietica. Hanno portato nuovi mercati. Ma soprattutto, hanno portato un nuovo ethos. Eppure, l’occidente sembra non accorgersene. Io mi rifiuto di parlare di allargamento dell’Unione Europea, perché ciò di cui abbiamo bisogno è la vera integrazione dei Paesi dell’est e dell’Europa centrale attraverso l’elaborazione di un progetto politico. Cercando di andare oltre le divisioni di tipo etnico, religioso e interstatale. Noi, che siamo stati i primi presidenti democratici, lo abbiamo fatto dopo l’‘89. Pensi alla nostra riconciliazione con l’Ungheria dopo secoli di conflitti. Pensi al trattato che abbiamo firmato con l’Ucraina, anche se abbiamo alcuni nostri territori lì inglobati. E non cediamo alle tentazioni russe, che ci spingono a reclamare quei territori dell’Ucraina. Noi vogliamo la pace, guardiamo al futuro e vogliamo che l’occidente ci rispetti, perché gli abbiamo regalato dei valori morali, un grande entusiasmo. Per questo in tanti hanno lottato e sono stati disposti a morire. Hanno perfino pagato il prezzo della transizione, che per sei anni è stata caratterizzata da un regime politico non democratico, ma di tipo neo comunista. Abbiamo bisogno di questo. Adesso guardiamo avanti. Non possiamo più tornare indietro».


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