Dentro o fuori dall’euro, la Grecia non sembra avere molte opportunità di riprendersi dalla crisi in cui si trova, e che ormai sembra giunta agli esiti finali. L’uscita dall’euro sarebbe una catastrofe per i greci, che già in questi giorni stanno correndo a mettere in salvo i loro risparmi, temendo di ritrovarseli convertiti in inutili dracme. Il sistema finanziario del paese collasserebbe, e così la sua credibilità sui mercati internazionali. Non avrebbe modo di finanziarsi all’estero, e sarebbe incapace di sopravvivere grazie alle sue attività produttive, che sono assai fragili e che subirebbero probabilmente il colpo di grazia. Forse la Grecia ripartirebbe dopo qualche anno, ma pagando costi sociali insostenibili.
Purtroppo un paese non è un’impresa, che può fallire ed essere sostituita da altre efficienti. Il meccanismo di ‘distruzione creativa’ di schumpeteriana memoria si inceppa a causa dell’interferenza della politica e dei capricci del voto democratico: la distruzione di inefficienze, necessaria per una ripartenza ‘spontanea’ dell’economia, basata su mercato e concorrenza – che, come insegnano gli economisti liberali, sono forse gli unici processi che danno prospettive solide di crescita sul lungo termine – nel breve termine crea un disagio tale da incentivare i consensi alle forze più populiste.
In Grecia ha vinto Syriza, ma potrebbero ottenere il governo forze ancora più radicali. Le quali, invece di creare il contesto per la ripresa consegnerebbero il paese a una condizione di caos e povertà strutturale, a furia di programmi statalisti ‘chavisti’ o ‘nazionalisti’ di redistribuzione, a seconda del segno politico. E’ bene ricordare che il prossimo sulla lista d’attesa dei tabelloni elettorali greci è il partito di orientamento nazista Alba Dorata, pronto a subentrare casomai dovesse fallire Tsipras. Ed è facile immaginare che le sue ricette economiche non saranno poi troppo diverse dalle minestre di Syriza, di Marine Le Pen, del M5s o del Podemos spagnolo.
D’altronde, le riforme imposte dalla Troika a garanzia dei prestiti, hanno avuto un simile esito politico. Anche in questo caso, i saggi precetti liberali che le hanno ispirate – create le condizioni per la concorrenza, la tutela dei diritti e della proprietà privata, la solidità istituzionale, e vedrete che rinasceranno nuove attività economiche, ricchezza e prosperità verranno – si sono scontrati con la dura realtà del voto. E’ possibile che qualche greco apprezzi le virtù di un periodo di ‘austerity’ per liberarsi di abitudini culturali votate allo spreco e ai corporativismi, ma è probabile che questa consapevolezza diventi sempre meno accettabile per tutti i cittadini con il dispiegarsi degli effetti di queste ricette, subiti a livello individuale e familiare, in termini di contrazione del reddito, perdita di benefici e privilegi. D’altronde, si dice, con qualche ragione, “il debito non l’hanno fatto i greci”, ma la loro classe politica.
La legge ferrea della democrazia, per cui i politici al governo possono prendere decisioni a loro beneficio personale (o di gruppi organizzati a cui fanno riferimento) esternalizzando i costi sulla collettività ignara, all’inverso può trasformarsi in una sorta di legge ferrea del populismo: se gli effetti immediati di riforme decise da un gruppo organizzato volte all’efficienza, i cui benefici non ci sono ancora, e sono attesi anzi solo in un futuro indeterminato (è impossibile sapere cosa ci riserverà lo sviluppo del mercato), diventano troppo pesanti sulla vita dell’individuo o degli elettori, questi voteranno per un gruppo politico che promette con proclami roboanti – leggi appunto, populisti – la fine rapida e sicura delle loro sofferenze.
Dunque, per la Grecia c’è, sembra, ben poco da fare. Tutti i percorsi per ritrovare la prosperità economica implicano lamenti e stridore di denti: sia quello del ‘Grexit’ che quella della Troika. Non è colpa né della Troika né dell’euro né del liberismo, né di nessuno, ma del fatto che la disintossicazione di un’economia devastata da decenni di sbronze di spesa pubblica gestita per organizzare consenso politico senza produrre nulla è un processo doloroso. Il cui esito non è affatto scontato: può darsi che l’economia riparta, ma anche che muoia, si avvii verso l’inaridimento definitivo. Ma in tutti i casi, le misure necessarie per la ripartenza tendono a essere ostacolate dalle sirene della politica, e dall’intervento, più o meno inevitabile, della legge del populismo.
Una ‘terza via’ per la Grecia in fondo c’è, ed è quella che, a ben guardare, Tsipras e il suo gagliardo economista Varoufakis sembrano avviati a percorrere (quanto deliberatamente, quanto per spirito folle d’azzardo, è difficile dirlo). E’ quella dell’integrazione politica europea, mutualizzando debiti e scaricando sugli altri paesi dell’unione monetaria i costi dei propri sprechi passati. Qui sta, forse, la posta in gioco del ‘salvataggio’ della Grecia di Tsipras: innescherebbe un processo di condivisione del debito, il che comporterebbe garanzie comuni, per gestire le quali inevitabilmente si arriverebbe a una riduzione delle sovranità nazionali (tedesca, francese, italiana ecc.) in favore di una maggior sovranità europea. L’alternativa, per forza di cose, rischia di essere la dissoluzione dell’euro e dell’Unione europea, con tutti i suoi complicati meccanismi per ‘simulare’ un’unione fiscale e politica, pur salvaguardando le rispettive sovranità.
La Grecia in un’Europa politicamente integrata rimarrebbe quello che è, un’area depressa e arretrata, forse condannata a tirare a campare dell’assistenzialismo di una comunità politica più grande e ricca. Ci sarebbero le lamentele di chi paga, e le lamentele di chi non riceve abbastanza ma tutto sommato sarebbe una tranquilla routine, senza scossoni. Per noi italiani sarebbe una situazione familiare. D’altronde non si è mai sentito parlare di una crisi del debito sovrano, che so, campano.