Ogni anno a febbraio finisco per far parte di quella minuscola schiera di specialisti di “confine orientale, foibe, esodo” richiesti in varie parti d’Italia per lezioni, incontri, conferenze. La sensazione che ne traggo è sempre più sconfortante, per molte ragioni. Dieci anni fa, quando venne celebrato per la prima volta il Giorno del Ricordo, avevo l’impressione che l’obbligo di legge avesse posto le amministrazioni nella condizione di commemorare per commemorare, senza avere alcuna coscienza degli avvenimenti. Oggi, dopo due lustri, la situazione mi pare cambiata, ma non necessariamente in meglio.
Molto si è già detto, negli anni passati, sull’uso politico della commemorazione, sulla vicinanza (anche terminologica) con il Giorno della Memoria e la conseguente forzata equiparazione tra Shoah e foibe. È uno degli effetti, solo in parte voluto, dell’accordo bipartisan che produsse, nel 2004, la legge istitutiva del “Giorno del ricordo in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale”. Val la pena di ricordare che tale accordo può essere considerato il punto d’arrivo di un lungo processo di riconoscimento reciproco – attraverso le politiche della memoria – di forze politiche contrapposte. Un processo reso possibile dal mutato contesto globale post 1989, e che vide come protagonisti Luciano Violante da una parte e Gianfranco Fini dall’altra, con la significativa mediazione dell’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Questi uomini erano certamente animati da contingenti motivazioni politiche, ma operavano nella prospettiva di una riconciliazione nazionale che, superando il conflitto ideologico, avrebbe riassorbito le memorie a lungo escluse dalla Storia del paese: dai “ragazzi di Salò” agli esuli istriani.
Fin dall’inizio tuttavia il tema delle violenze commesse alla fine del conflitto e dell’esodo di una parte della popolazione italiana dalla Jugoslavia post-bellica viene affrontato, a livello politico e mediatico, con estrema superficialità. Pubblicazioni di taglio sensazionalistico ma prive di fondamento storico, trasmissioni televisive che si riducono spesso a mero scontro di opinioni, una fiction, realizzata dalla Rai già nel 2005 e ogni anno riproposta, fortemente empatica ma del tutto inverosimile; tutto ciò ha finito per veicolare uno scenario semplificato e manicheo, incentrato sugli stereotipi contrapposti del “bravo italiano” e del “barbaro slavo”. Al di là degli sforzi delle singole amministrazioni, le avventate dichiarazioni del presidente Napolitano hanno più volte suscitato reazioni piccate da parte delle autorità slovene e croate, andando a costituire un tema di micro-conflitto permanente con due paesi che da poco hanno aderito all’Unione Europea.
Le grossolane semplificazioni, la leggerezza nell’uso delle cifre e delle fonti, hanno prodotto una reazione comprensibilmente esasperata in ambienti culturali legati alla difesa della memoria della Resistenza. Mi riferisco a enti, associazioni o istituti di ricerca per i quali la data del 10 febbraio si è trasformata in occasione per analizzare la fascistizzazione forzata dell’Istria negli anni del regime e i crimini commessi dall’esercito italiano durante l’occupazione della Jugoslavia nella seconda guerra mondiale. Si tratta a ben vedere di un’interpretazione legittima del testo della legge, che parla anche genericamente di “vicende del confine orientale”, ma che tende a sminuire la questione specifica delle violenze commesse alla fine del conflitto.
Sempre più spesso si arriva al paradosso per il quale nello stesso giorno le amministrazioni pubbliche si trovano a patrocinare commemorazioni ufficiali a carattere puramente vittimistico (talvolta con accenti razzisticamente antislavi) e momenti di analisi incentrati sulle violenze commesse dagli italiani nel ventennio precedente al 1943-45: due discorsi pubblici conflittuali, immotivatamente slegati l’uno dall’altro. Sulla vicenda specifica della conflittualità postbellica esiste poi uno iato insanabile in termini di cifre (da poche migliaia a 15.000 “infoibati”), di motivazioni (epurazione politica versus pulizia etnica), di terminologia (esercito di liberazione jugoslavo o occupanti “titini”?).
L’inconciliabilità di queste due impostazioni appare evidente ed è forse questa che suscita nello storico di professione una sorta di vertigine: è come se mi sentissi galleggiare a metà di un guado, osservando entrambe le sponde allontanarsi. È paradossale che una giornata commemorativa nata per riconciliare le memorie divise di una nazione sia finita per separarle ulteriormente, lungo fenditure parzialmente differenti ma forse ancora più radicali. Dopo dieci anni di “cuori nel pozzo” si sente fortemente il bisogno di un nuovo sforzo di riconciliazione che parta dalla ricerca della verità, la sola che può rendere omaggio davvero alla memoria delle vittime. C’è bisogno di uno sforzo di rielaborazione e di conoscenza che consenta interpretazioni differenti – secondo le diverse sensibilità – ma partendo da dati condivisi, in larga parte ormai accertati dalla ricerca storica.
—-
Eric Gobetti, classe 1973, storico torinese esperto di Europa orientale, ex-Jugoslavia e mondo slavo, è autore di numerosi saggi tra cui Alleati del nemico (Laterza, 2013) e L’occupazione allegra. Gli italiani in Jugoslavia (Carocci, 2007).
Lavorando da anni a contatto con le associazioni di esuli giuliano-dalmate, pur non essendo figlio di esuli, mi sento oggi di condividere in pieno questa analisi di Gobetti. Il mio sconforto è più sfumato perché stando in un centro di documentazione sono a contatto tutto l’anno con studenti e ricercatori, e vedo per fortuna constato dal basso molta voglia di approfondimento, curiosità e interesse. Comunque sì, anche io, vedo che c’è bisogno di rinnovare lo sforzo di riconciliazione, come si afferma alla fine dell’articolo.
Il problema sta nell’uso politico della storia, nel non voler contestualizzare, in quella giornata del ricordo sempre più, (unita alla commemorazione dell’eccidio di Topli Uork in un unicum di giorni e giorni), utilizzata, pare, anche da parte di alcuni con un malcelato senso di espiazione non si sa di che, ad affossare via via la resistenza e sostituirla con la storia dei “martiri delle foibe” termine semplicistico e a forte effetto emotivo. A Tolmezzo è stata ridotta ad una targhetta invisibile l’intitolazione di piazza dei Martiri della Libertà, trasformata in una gigantesca rotonda, ma abbiamo un monumento ai martiri delle foibe, ed uno slargo ad essi dedicato, per esempio.
In questo processo di transfert dalla resistenza (relegata spesso al solo 25 aprile a livello mediatico) alle “foibe” va a finire che pare che la resistenza si sia risolta tutta in un “fatti più in là” reciproco, ove i protagonisti sono i cattivissimi partigiani garibaldini ma non solo, uniti ai cattivissimi slavi, contro gli italianissimi anche osovani, a difesa dei confini. Così si uccidono resistenza, storia, memoria, si fa politica di destra, non si collabora ad una corretta analisi situazionale e di contesto. Eppure testi seri esistono sull’argomento, ma si preferisce leggere tutto in termini di “crociati ed infedeli nemici dei crociati”, lettura in “bianco e nero” il che permette di schierarsi, affossando la complessità delle situazioni storiche, spesso epurate da fascisti nazisti, alleati in Jugoslavia. E la storia del confine orientale non iniziò nel 1943, ma con la prima guerra mondiale. Ma forse visto quanto l’assessore alla cultura della Regione FVG, ha dato all’Istituto Regionale per la Cultura Istriano – Fiumano – Dalmata, che si occupa della storia delle non italiane Istria Dalmazia e Fiume, (centocinquantamila euro), (Messaggero Veneto 3/12/2014), storia che si presenta così separata, frantumata settoriale, non come un unicuum, mentre in Carnia, FVG, siamo sempre alla caccia di quattro spiccioli per la cultura e la storia, incomincio a pensare che ormai fare storia seriamente, in un’ottica sistemica e con gran attenzione alle fonti, in Fvg e Italia sia una impresa disperata. E mi preoccupano anche i giornalisti che sempre più si presentano come storici, per la diversità di formazione ed approccio. Ma è pensiero mio e posso naturalmente sbagliarmi
Forse il problema è che la memoria non può mai essere riconciliata, al limite si può raggiungere un punto d’incontro sull’interpretazione e l’analisi storica…