SLOVACCHIA: Referendum anti-LGBT per un paese incerto

A poche settimane dal referendum per la protezione della famiglia tradizionale fissato il 7 febbraio, il popolo slovacco sembra incapace di capire se e quali diritti spettano alle persone LGBT.

Era il 4 giugno 2014 quando il parlamento approvava con un voto di 102 favorevoli su 128 presenti l’emendamento costituzionale a favore della famiglia tradizionale. Dal primo settembre dello stesso anno, data in cui l’emendamento è entrato in vigore, nella Legge Fondamentale dello Stato si legge che “il matrimonio è esclusivamente un’unione tra un uomo e una donna”. Uno scacco decisivo giocato contro le coppie LGBT che seppure è andato a segno non ha fermato la campagna anti-gay in cui il conservatorismo religioso e la Chiesa slovacca giocano un ruolo di primo piano.

Dall’Arizona ai gazebo di Bratislava, contro la famiglia non tradizionale

A seguito di quel famigerato primo di settembre, la Alliance Defending Freedom (ADF), un’organizzazione cristiana con sede in Arizona, parte con una gigantesca campagna politica. L’obbiettivo è quello di raggiungere la quota necessaria di firme per indire un referendum. Uno dei leader dell’ADF, Anton Chromik, sostiene infatti che “gli omosessuali non chiedono solo diritti, ma vogliono chiudere la bocca alle persone”. Le firme che si raccolgono sono 400mila e la petizione viene offerta nelle mani del Presidente della Repubblica Andrej Kiska, che non si oppone.

Il 28 ottobre 2014 la Corte Costituzionale stabilisce che gli slovacchi saranno chiamati a votare su tre distinte domande: Sei d’accordo che solo un legame tra un uomo e una donna possa essere definito matrimonio? Sei d’accordo che alle coppie dello stesso sesso non dovrebbe essere permesso adottare e allevare bambini? Sei d’accordo che le scuole non dovrebbero pretendere la partecipazione dei bambini alle lezioni sul comportamento sessuale o sull’eutanasia qualora i loro genitori non siano d’accordo? Quesiti che potenzialmente limiteranno i diritti LGBT. Potenzialmente, perché c’è chi ribatte che il referendum non servirà a nulla, qualsiasi sia il suo risultato finale.

Da quando il Presidente Kiska ha fissato il referendum per il 7 febbraio, ad oggi, il dibattito è tutt’altro che chiaro. Innanzitutto, come si scriveva, non si capisce l’utilità del referendum, almeno nel breve periodo: qualcuno (Richard Sulík, presidente Sas) dice che i temi su cui verte il referendum sono già disciplinati da precedenti leggi, altri invece suggeriscono che il tutto funga da trampolino di lancio per un possibile nuovo partito cristiano. Curioso quest’ultimo caso, perché se così fosse, a farne le spese sarebbe il partito democristiano KDH che – convergendo con i socialdemocratici Smer – era stato l’artefice della modifica costituzionale dell’anno scorso e che oggi è uno dei maggiori sostenitori del referendum.

La Chiesa spinge alle urne per superare il quorum

Affinché il referendum sia valido è necessario che il 50% della popolazione si rechi alle urne. Un’enorme mobilitazione di cui maggiore promotrice si fa la Chiesa. Infatti il 18 dicembre 2014 con un Comunicato ufficiale la Conferenza episcopale della Slovacchia (KBS) sollecitava i suoi membri: “Ci rivolgiamo ai fedeli e a tutti gli uomini di buona volontà, affinché nel mese di febbraio esercitino attivamente il loro diritto di voto rispondendo affermativamente alle domande poste”.

La Chiesa dunque, così come le forze politiche confessionali, premono per votare Sì al referendum. Sollecitazioni che esercitano un enorme peso in un paese dove il 63% dei cittadini si definisce cristiano praticante. Il quotidiano Sme non si è lasciato sfuggire un certo parallelismo con il referendum in Italia del 2005 in materia di procreazione artificiale, quando la Chiesa domandò ai propri fedeli di non partecipare al voto. Caso ribaltato, ma eguale ruolo fondamentale giocato dall’istituzione religiosa: la partecipazione al voto si assestò al 25%, invalidando il referendum.

Pro-LGBT per l’astensionismo

Una vera e propria campagna contro il referendum non esiste e qualora fosse esistita è durata poco. A spiegarne il motivo è Romana Schlesinger, attivista e organizzatrice degli eventi annuali Gay Pride a Bratislava: “I nostri argomenti si sono esauriti e oggi tendono ad essere ripetitivi, questo perché non stiamo mentendo”.

L’unica direzione verso cui le associazioni Pro-LGBT si spingono è quella dell’astensionismo. Una strada battuta anche da alcuni esponenti politici. Pál Csáky (SMK) sebbene abbia votato a favore dell’emendamento anti-LGBT nel giugno 2014, afferma che non andrà a votare al referendum, perché il timore è che questo non farà altro che polarizzare la società. Tra i membri della direzione socialdemocratica, invece, spicca Monika Flašíková-Beňová che non usa mezzi termini: “Penso sia immorale votare sui diritti delle persone”.

Foto: The Economist – Manifestazione anti-LGBT 2010, Bratislava

Chi è Alessandro Benegiamo

Nato a Lecce nel 1989, ha collaborato a East Journal dall'agosto 2014 all'aprile 2015, occupandosi di Repubblica Ceca e Slovacchia

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