Monika Bulaj, fotografa e scrittrice polacca, racconta il suo viaggio attraverso l’Europa dell’est nel libro Genti di Dio (Postcart, 2012). Il suo cammino inizia nell’inverno del 1985 in Polonia, per proseguire a piedi o con qualsiasi altro mezzo a sua disposizione, con lo scopo di raccogliere le immagini e le storie dei tanti popoli e minoranze che abitano quei luoghi. A Trento, durante l’intervista, descrive alcuni degli incontri avvenuti lungo la strada e le suggestioni che l’hanno spinta a cercare la bellezza nascosta negli angoli più sperduti. Quando non viaggia per il mondo vive con la sua famiglia a Trieste, dove progetta i suoi straordinari reportage fotografici. Il suo ultimo libro s’intitola Nur e raccoglie tutte le fotografie scattate in Afghanistan.
«Foreste infinite e cavalli nel grano, stelle e lumini, rigagnoli nella neve, villaggi e formazioni di oche al tramonto, icone nella penombra, profumo di betulla e incenso, canzoni di pastori e battellieri, biascicar di preghiere, treni che si fermano in mezzo al nulla, cimiteri di popoli dimenticati o scomparsi, fiumi sotto la Luna. Periferie incantate, segnate dalla Storia» Con queste parole Monika Bulaj, fotografa e scrittrice polacca, descrive l’altra Europa nel libro intitolato Genti di Dio (Postcart, 2012), in cui racconta il suo viaggio. La incontro a Trento in occasione di una mostra organizzata dall’associazione Il gioco degli specchi per la commemorazione dei 25 anni dalla caduta del muro di Berlino, rapita dalla bellezza delle sue fotografie le chiedo di dare voce ai tanti volti che ha incontrato lungo la sua strada. «L’Europa orientale è un mondo vicinissimo e sconosciuto. Povero eppure grandioso nella sua bellezza. I giornali non ne parlano. L’Ucraina, per esempio. E’ distante dall’Italia un giorno di automobile, ma pochi sanno cosa sia l’onda lunga delle sue colline. I turisti non ci vanno, sebbene la natura incanti e la gente sia fraternamente ospitale. Per arrivare in quei mondi non c’è più la Cortina di Ferro, ma restano le frontiere della Fortezza Europa. Attraversarle dà ancora il batticuore».
Monika parla con voce di velluto, ammaliatrice, racconta di luoghi e persone che restano a cavallo tra fiaba e realtà. Si muove che pare una danza, mentre mostra con naturalezza come impugna la macchina fotografica in modo da scattare in una frazione di secondo, per poi abbassare veloce la mano, senza farsi vedere, scusandosi con un sorriso per quell’istante rubato. Per fotografare si immerge totalmente nell’altro, con la pazienza di chi può attendere all’infinito per conquistare il momento perfetto da fissare nel tempo: c’è qualcosa di attraente ed unico in quel diverso che la spinge a cercare, viaggiare e attraversare il mondo, con la sola paura di fermarsi troppo a lungo e non poter ripartire. L’anima da antropologa e la sensibilità della scrittrice l’hanno spinta a ricercare lo spirito dei popoli e delle minoranze attraverso l’Europa orientale.
Ma il viaggio di Monika ha radici lontane: la spingono i ricordi e le suggestioni dell’infanzia trascorsa a Varsavia dove è nata nel 1966, i racconti sussurrati dagli adulti e le parole non dette che le hanno lasciato intravedere un mondo che l’ha ossessionata di interrogativi per tutta la vita. Per ritrovare quel passato che si confonde nelle trame del presente, dove il tempo assomiglia sempre più ad un serpente che si morde la coda tornando all’inizio, trova spunto per intraprendere studi e ricerche sulle minoranze ed in particolare le comunità ebraiche fuggite dalla Polonia durante la guerra. Durante un viaggio a Gerusalemme, nel quartiere dei Cento Cancelli, prende forma la sua ricerca: «In fondo alla sala vuota, una grossa parete senza buchi, senza fessure, non permette nemmeno di intravedere le ombre degli uomini che pregano nella stanza accanto. Vedo una donna molto anziana, sola, con una parrucca grigia a buon mercato. Mi siedo accanto a lei. Allora nasce il canto, dapprima solitario, delicato, poi cresce di tante voci che lo raggiungono e sostengono in un lacerante lamento, riempiono la sala, il vicolo, il quartiere dei Cento Cancelli. La donna diventa pallida, ma forse sono io che piango. Sento che questo canto, che non è fatto per essere ascoltato, fa parte di lei, venuta qui da uno shtetl polacco, e di me, nata a Varsavia dopo la fine del suo mondo. Lo riconosco, senza averlo mai sentito».
Il primo dei suoi tanti viaggi è iniziato nell’inverno del 1985, sul confine orientale della Polonia che ha attraversato a piedi da nord a sud, «da allora non ho smesso di cercare e il viaggio alle periferie dell’Europa è diventato un viaggio nelle genti di Dio», seguendo un gruppo di pellegrini ebrei andati a cercare i loro santi, per arrivare a Warka, piccolo shtetl polacco in cui è nata la nonna e che rappresenta un punto di riferimento per la mistica ebraica. «Il silenzio della città di mia nonna, Warka, dove passavo le vacanze, a me faceva paura. Dopo anni di studio e di ricerche ha acquisito un senso: era il silenzio degli assenti. In fondo è stato il silenzio di Warka a portarmi a Gerusalemme, ed ora è Gerusalemme che mi porta sulla strada di Warka».
Le Genti di Dio, così come Monika definisce gli abitanti del mondo, sono i mille volti dell’Europa dell’est. Ed è come guardare attraverso i suoi occhi immagini intime di un tempo che si è fermato altrove, sospeso, talmente intense da essere commoventi: parlano di persone, mondi e culture diverse che si penetrano ed interagiscono a vicenda, alla ricerca della memoria di un passato da custodire. Come colui che non vive da nessuna parte perché tutta la terra gli appartiene Monika ha percorso a piedi, o con qualsiasi altro mezzo a sua disposizione, l’Altra Europa, vivendo insieme alle genti le cui storie voleva raccontare. In una totale comunione: dividendo i pasti, le case, i ricordi, per riuscire ad arrivare alla cultura ed allo spirito dei suoi abitanti, il suo scopo è quello di raccogliere queste storie per poterle raccontare prima che vadano perdute nel silenzio: «Voci deboli, cui devo tutto: soprattutto il rispetto. Ed è per questo che non posso rivelare i nomi dei luoghi più fragili e arcani, nella speranza che non perdano la loro innocenza».
Che cosa sia l’Altra Europa è difficile dirlo: «Una volta ho viaggiato con una donna ucraina, mi ha detto che nell’est c’era ancora un’anima dei luoghi ed io ho voluto chiederle che cosa fosse l’est, dove inizia e dove finisce e, soprattutto, cosa volesse dire avere l’anima in quei luoghi» ma nemmeno quella donna aveva trovato le parole per spiegarne il significato. «Quando sei oltre, il tuo diventa un viaggio del tempo. Lì i cambiamenti arrivano più lentamente che altrove. L’Europa orientale, tra Baltico e Mar Nero, è un serbatoio ineguagliabile del mondo di ieri. Come se il muro di Berlino fosse appena caduto, come se gli orrori del secolo ventesimo non avessero colpito proprio lì nel modo più devastante. Non sono solo le periferie d’Europa. Sono anche le periferie delle fedi. Periferie speciali, dove i monoteismi oggi in conflitto generano – a sorpresa – terreni di coabitazione. Ed è un mistero che proprio questi territori, devastati da tanti massacri e deportazioni, siano riusciti a generare una capacità di incontro che altrove il mondo sta perdendo».
Infine chiedo a Monika di raccontarmi un incontro soltanto. «Ci sono tantissime storie» – dice – «le foto non sono premeditate, nascono da ciò che incontro, dall’attenzione al mondo che c’è intorno e in cui mi identifico. Una volta ho incontrato una bambina lungo la strada, eravamo sul confine tra Polonia e Slovacchia, mi ha incantata perché aveva gigantesche scarpe ed un vestito terribilmente elegante. Mi sono fermata a parlare con lei ed ho scoperto che era la più piccola di sei figli, la sua mamma faceva l’insegnante e l’aveva mandata a vivere con la nonna per proteggerla dal padre alcolizzato e violento. Proprio quel giorno era la festa della mamma e la nonna le aveva procurato questo bellissimo vestito per andare a farle gli auguri e rivederla dopo tanto tempo. Era talmente felice che quando siamo arrivate a casa si è messa a ballare. Ecco le foto nascono così: non c’è un prima o un dopo, ma solo un diaframma, solo un momento».
Non è difficile immaginarla, l’empatia che disintegra ogni barriera, scavalcando le distanze linguistiche e culturali. «La mia vita era inserita nelle vite di queste persone, il rapporto d’incontro è un gioco di specchi, uno sguardo riflesso: mi hanno sempre chiesto il perché fossi lì. Ci sono tanti modi di incontrare le persone, ci sono gli sguardi, quando non riesco a comunicare perché non conosco la lingua, i gesti che hanno un significato diverso per ogni cultura, spesso sbaglio, ho fatto involontariamente tantissimi gesti sgraditi, ma poi ho imparato. L’incontro è sempre reciproco: a volte venivo accolta della famiglia come una figlia, altre volte come una sorella oppure una madre».
Poi, un’altra sera ancora, accenderà di nuovo la candela della fine dello Shabbat. Scenderà la notte, due bambini lentigginosi cercheranno nelle unghie il riflesso della luce tremolante. «Lo sai», sorriderà lui, «l’unico modo di vedere la luce è nel riflesso» da Genti di Dio, Monika Bulaj.