SERBIA: Il ritorno di Šešelj a Belgrado

Da BELGRADO– Vojislav Šešelj, il “vojvoda cetnico”, è tornato a Belgrado il 12 novembre. Il Tribunale dell’Aja – presso il quale Šešelj è accusato di crimini contro l’umanità e violazioni delle leggi e delle usanze di guerra commessi in Croazia, Bosnia-Erzegovina e Vojvodina – ha rilasciato il leader dei radicali serbi per “problemi di salute“, consentendogli di curarsi a casa propria.

La notizia del suo ritorno era attesa ormai da tempo sia dai suoi sostenitori e compagni di partito, che dal governo serbo, che si era fatto garante del rispetto delle condizioni per il temporaneo rilascio di Šešelj. Ad attenderlo all’aeroporto di Belgrado, oltre alla moglie e i figli, erano presenti centinaia di persone tra cui i rappresentanti del Partito Radicale Serbo, il partito di cui è rimasto presidente anche durante la detenzione all’Aja.

Ed è stato proprio nella sede del Partito Radicale a Zemun che si è recato dopo l’atterraggio, per tenere un breve ma intenso discorso dalla finestra. Šešelj si è rivolto alla folla attaccando il Tribunale dell’Aja, la cui autorità e regole si è sempre rifiutato di riconoscere, e i cosiddetti “traditori del popolo serbo” ovvero Aleksandar Vučić, presidente del consiglio, e Tomislav Nikolić, Presidente delle Repubblica.

Ritorno in Serbia, ritorno alla politica

Dopo 11 anni trascorsi all’Aja, dove si era spontaneamente consegnato nel 2003 per essere processato, il leader nazionalista afferma come egli abbia “distrutto il Tribunale Internazionale” e che la “temporaneità” del suo rilascio durerà tanto quanto gli sarà necessario per rimuovere Vučić e Nikolić, che fino al 2008 erano anch’essi membri del Partito Radicale Serbo.

Il primo obiettivo politico di Šešelj sarà quindi una “vendetta” nei confronti di quelli che ha definito “servi dell’occidente”, che hanno sfruttato il nazionalismo serbo per salire al potere. Lo strappo con Vučić e Nikolić avvenne quando questi ultimi decisero di fuoriuscire dai radicali e fondare il Partito Progressista Serbo, con l’obiettivo di avvallare istanze filo-europee ed intraprendere il percorso di integrazione nell’Unione Europea, primo obiettivo dell’attuale governo di Belgrado.

Nel frattempo, il processo a Šešelj per crimini contro l’umanità e crimini di guerra era iniziato nel 2007. La sua permanenza all’Aja – resa “celebre” per i ripetuti insulti e oltraggi ai giudici della corte, nonché dalle ripetute accuse nei confronti dell’occidente – ha infatti offerto la possibilità a Vučić e Nikolić di liberarsi di uno scomodo avversario politico instaurando il predominio politico dei progressisti. Infatti, nonostante Šešelj non goda di ottima salute e il suo elettorato al momento non rappresenti un pericolo reale per la coalizione di governo, le sue apparizioni pubbliche sono sempre state caratterizzate da scomode argomentazioni di carattere storico e nazionalista, nonché da insulti diretti che fanno presa sulla massa del suo elettorato – come in occasione dell’ultimo discorso, dove la folla ha risposto agli attacchi a Vučić e Nikolić con il coro “Vučiću pederu!” (Vučić frocio!).

Šešelj il nazionalista, e la Grande Serbia

Vojislav Šešelj, nato a Sarajevo nel 1954, ha alle spalle una lunga carriera di politico nazionalista, iniziata già nel periodo della Jugoslavia socialista e alternata sia da incarcerazioni che da successi politici. Il “vojvoda” (comandante) – “titolo” attribuitogli da un comandante cetnico in esilio e soprannome con cui viene chiamato dai suoi sostenitori – ha dedicato la propria vita politica per la causa della “Grande Serbia”. Per questo motivo venne incarcerato sia negli anni ottanta che nel 1990, quando tentò di distruggere il mausoleo dove è sepolto il Maresciallo Tito. Quando infine negli anni ’90 la Jugoslavia collassa e in Serbia si passa al multipartitismo, il clima nazionalista che domina la scena politica rappresenta il terreno fertile per il suo progetto politico. L’accusa del Tribunale Internazionale infatti, è proprio quella di aver fomentato la pulizia etnica in quelle regioni che diventeranno teatro di violenze e conflitti armati, in primis la Slavonia e l’autoproclamata Republica Serba di Krajina.

L’idea della “Grande Serbia” – così come intesa da Šešelj e dai radicali, per i quali tuttora rappresenta uno dei principi cardine – richiedeva che la JNA (l’esercito nazionale jugoslavo, ndr.) si posizionasse lungo l’asse Karlopag-Ogulin-Karlovac-Virovitica, includendo dunque Bosnia-Erzegovina e parte della Croazia, difendendolo come nuovo confine della (grande) Serbia – sulla base anche dell’esperienza storica del Varaždinski Generalat del 1531, e della “Vojna Krajina“, ovvero un confine militarizzato abitato prevalentemente da serbi e istituito in seno all’Impero austroungarico come linea di difesa contro l’Impero ottomano.

Šešelj è infatti accusato di aver reclutato, all’inizio della guerra in Jugoslavia, truppe paramilitari, che occupassero quei territori di Croazia e Bosnia-Erzegovina dove la popolazione serba era preponderante e compissero azioni di pulizia etnica nei confronti delle popolazioni non serbe.

Il futuro, a Belgrado o all’Aja?

In questi giorni che hanno seguito il suo ritorno in patria, Šešelj ha rilasciato diverse interviste ai giornalisti – tra cui la dichiarazione di “orgoglio” per l’omicidio di Zoran Đinđić, con la quale la Serbia si sarebbe liberata di un “traditore mafioso” – che fanno riflettere sulle prossime mosse del leader dei radicali.

Šešelj ha infatti ribadito che non ritornerà volontariamente all’Aja e dal governo fanno sapere come questa non sia competenza di Belgrado, che ha però l’obbligo di non rilasciargli il passaporto, lasciando intendere che la questione riguarda esclusivamente l’imputato e il tribunale. Allo stesso tempo, secondo Aleksandar Vulin, ministro del lavoro dell’occupazione e delle questioni sociali, dal momento che “il Tribunale Internazionale è sotto il controllo degli Stati Uniti”, il rilascio di Šešelj in realtà servirebbe per “destabilizzare il governo di Vučić“.

Il ritorno di Šešelj a Belgrado è dunque avvenuto secondo quanto ci si aspettava: ovazioni da stadio dei suoi irriducibili sostenitori, attacchi contro il Tribunale dell’Aja, e desiderio di “vendetta” politica nei confronti dei suoi ex compagni di partito. Le dichiarazioni rilasciate al momento dell’arrivo e nel suo primo discorso pubblico, rispettano dunque un copione già visto. Dopo undici anni però, il carisma del “vojvoda” non gode più dell’appoggio elettorale degli anni ’90, considerato infatti che dalle elezioni del 2000 per i radicali non sono mai arrivati successi importanti, complice proprio il trasferimento di Šešelj all’Aja. Proprio per questo motivo, le sue “spettacolari” apparizioni pubbliche servono piuttosto per far riemergere quella parte dell’elettorato deluso dai governi che si sono succeduti negli ultimi dieci anni, nonostante lo stesso estremismo dei radicali non abbia mai portato ad alcun risultato politico di successo, nemmeno quando era al governo, che non fosse l’inclusione dei četnici tra coloro che avrebbero liberato la Serbia nella Seconda Guerra Mondiale – una mistificazione storica che però non ha mai riscontrato il consenso popolare.

Infine, Šešelj è un uomo malato, e nonostante le sue intenzioni di risollevare le sorti del popolo serbo, senza alcun programma preciso, la maggior parte dello stesso popolo a cui fa riferimento è più che convinta che quello in bisogno di cura sia lui.

Foto: mondo.rs

Chi è Giorgio Fruscione

Giorgio Fruscione è Research Fellow e publications editor presso ISPI. Ha collaborato con EastWest, Balkan Insight, Il Venerdì di Repubblica, Domani, il Tascabile occupandosi di Balcani, dove ha vissuto per anni lavorando come giornalista freelance. È tra gli autori di “Capire i Balcani occidentali” (Bottega Errante Editore, 2021) e ha firmato due studi, “Pandemic in the Balkans” e “The Balkans. Old, new instabilities”, pubblicati per ISPI. È presidente dell’Associazione Most-East Journal.

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