Sei lezioni per l'UE, a dieci anni dall'allargamento a est

Nel 2004 l’Unione europea cambiava faccia, portando da 15 a 25 i suoi stati membri e completando una prima parte della riunificazione storica di un continente che per i sessant’anni precedenti era rimasto diviso tra est e ovest. Nel 2014, dieci anni dopo, l’allargamento verso i Balcani e la Turchia procede a rilento, mentre l’aggressione russa all’Ucraina dimostra “la fine del monopolio dell’UE sul potere trasformativo”.

La Croazia, 28° stato membro dal 2013, potrebbe essere l’ultimo nuovo membro del decennio, l’ultimo a non dover passare per un referendum, e l’ultimo a non dover subire restrizioni permanenti sulla libertà di movimento dei lavoratori, “aprendo alla possibilità di uno status permanente diminuito rispetto alla piena membership, per i futuri aderenti.”

E’ allora il caso di ritornare su sei lezioni apprese dall’UE nei dieci anni passati. Questo è il punto di partenza per il saggio di Heather Grabbe, pubblicato sul volume del 2014 del Journal of Common Market Studies (JCMS), la principale pubblicazione scientifica di studi europei.

#1. L’influenza dell’UE sui temi sensibili si riduce dopo l’adesione, ma la conformità al diritto UE è permanente

La maggiore leva d’influenza per l’UE sui suoi stati candidati è legata all’adesione stessa. Dopo tale data, la capacità d’influenzare le dinamiche politiche interne, specie quelle politicamente più sensibili, si riduce drasticamente, giustificando la necessità di una maggiore vigilanza pre-adesione. Lo dimostrano i casi della Romania, dove il ministro Monica Macovei, impegnata nella riforma del sistema giudiziario, venne licenziata in tronco subito dopo l’adesione, e della Croazia, dove subito dopo l’adesione il governo cercò di limitare la portata del mandato d’arresto europeo per salvare Josip Perkovic.

Dall’altra parte, i nuovi stati membri continuano ad adattarsi al diritto UE in tutti gli altri campi, e spesso meglio degli stati membri da più tempo. Ciò è un’indicatore del fatto che la conformità alle norme europee non è dettata solo da ragioni strumentali, ma anche da un meccanismo di socializzazione normativa (persuasione e apprendimento sociale) che àncora (lock-in) quello che inizialmente poteva essere solo un cambiamento legato ad incentivi materiali.

Nei paesi d’Europa centro-orientale, la condizionalità europea si è applicata in un contesto in cui il “ritorno all’Europa” era un progetto nazionale condiviso da tutta la società. La prospettiva d’adesione ha “allungato l’orizzonte temporale dei politici post-comunisti, allargato il circolo dei riformatori, agito da deterrente rispetto agli oppositori delle riforme”, secondo la definizione di Jacoby (2006). L’UE “andava con la corrente” – a differenza di ciò che è avvenuto invece recentemente in Islanda e Turchia, in cui l’azione “controcorrente” dell’UE non è stata in grado di superare gli ostacoli domestici ed ottenere una trasformazione del sistema. “Quando la data d’adesione è troppo lontana, elite rent-seeking, burocrazie deboli e leader nazionalisti possono arrestare le riforme europee nonostante un’opinione pubblica a favore dell’adesione”.

L’esperienza dell’UE con Romania e Bulgaria – che secondo la vulgata, e nonostante i dati contrari, sono entrate nell’Unione troppo presto – dimostra come deboli capacità dello stato limitino l’effetto trasformativo dell’UE. Ciò ha portato la Commissione europea a modificare la sequenza dei capitoli negoziali, che prendono oggi avvio dai cap. 23 e 24 sulla riforma della giustizia e lo stato di diritto, considerati precondizioni rispetto al resto.

#2. La democratizzazione non è una strada a senso unico – e non garantisce una buona governance

Gli stati membri non hanno mai voluto dare mandato all’UE di occuparsi della qualità interna delle loro democrazie. Ciò implica che l’influenza della condizionalità UE resta forte nelle questioni di policy, ma debole in quelle di democrazia, in cui l’UE non ha norme proprie o appigli all’acquis legislativo sul mercato unico. Si tratta, per certi versi, del rovescio della medaglia del “metodo Monnet”, che prevede la depoliticizzazione e un approccio tecnico e pragmatico all’integrazione. Ciò significa, anche, che quando problemi di consolidamento democratico appaiono in quelli che sono ormai stati membri, l’UE ha ben poche risorse per farvi fronte.

Il caso dell’Ungheria dimostra bene i limiti della socializzazione: malgrado proprio il governo Orban al potere tra 1998 e 2002 sia stato il beniamino dell’avvicinamento all’UE, quello stesso governo si è dimostrato senza scrupoli nel catturate le istituzioni democratiche ungheresi dopo l’adesione. E a causa di politiche partigiane (Orban resta affiliato alla principale famiglia politica europea, il PPE dei democristiani e conservatori) e di un debole consenso normativo, l’Unione non è stata in grado di proteggere i cittadini ungheresi da tali sviluppi.

Allo stesso tempo, la democratizzazione non garantisce una buona governance. I cittadini dei nuovi stati membri hanno presto imparato che l’adesione all’UE non significa la fine dei tentativi di concentrazione del potere e di sfruttamento delle rendite da parte di politici senza scrupoli. L’elaborazione di una agenda sulla protezione della governance e dello stato di diritto anche all’interno dei paesi già membri è uno dei compiti che attende la nuova Commissione e il nuovo Parlamento – pur sapendo che gli stati membri resteranno ben gelosi della propria autonomia: “i tacchini dovrebbero votare unanimemente per il Natale”.

#3. Il successo della trasformazione dipende dal circolo virtuoso tra riforme, crescita, e prospettive d’adesione

I paesi dei Balcani presentano delle condizioni iniziali più difficili, rispetto ai paesi d’Europa centro-orientale, per via della mancanza dei pre-requisiti per una trasformazione di successo: un’amministrazione statale efficiente, un’afflusso di capitali e investimenti diretti esteri (FDI), e un consenso bipartisan sull’obiettivo dell’adesione. Al contrario, per via dell’eredità dei conflitti, i paesi oggi candidati all’UE soffrono di amministrazioni statali deboli e di una transizione economica in ritardo (e oggi rimandata ancora di più dalla crisi globale). Rafforzare le capacità amministrative dello stato, avviare la transizione economica, e garantire la permanenza del consenso politico all’adesione è necessario per avviare il circolo virtuoso tra riforme, crescita, e prospettive d’adesione che ha funzionato in Europa centro-orientale nella decade precedente.

#4. Il potere trasformativo dell’UE dipende da coerenza e credibilità

La politica d’allargamento UE funziona come un cacciavite: in maniera lenta ma sicura, àncora e consolida il cambiamento in profondità tramite una pressione costante. Ma perché tale effetto trasformativo si realizzi, è necessario che l’UE sia coerente nelle proprie richieste e credibile nelle proprie promesse; tantopiù oggi, che l’agenda dell’integrazione può andare contro gli interessi delle élite al potere.

La mancanza di coerenza delle politiche UE ne ha già minato la credibilità in passato, come nel caso della Turchia. L’incentivo identitario ad aderire all’UE è rimasto forte in Turchia a lungo, ma il ripetuto mettere in discussione da parte di diversi stati membri la possibilità finale d’adesione ha minato la fiducia nella buona fede del processo. Non appena gli interessi dell’UE e quelli del governo turco hanno iniziato a divergere, quest’ultimo si è sganciato, e l’opinione pubblica con lui. Oggi il potere d’influenza dell’UE in Turchia è di molto diminuito.

#5. Non permettere mai l’adesione di un paese con un conflitto irrisolto sul proprio status

Nel 2004, su insistenza (se non ricatto) della Grecia, la Repubblica di Cipro venne inserita in lista con gli altri nuovi stati membri, nonostante la mancanza di un accordo finale con la comunità turco-cipriota sulla riunificazione dell’isola. Nei 10 anni successivi, Cipro si è dimostrato un single-issue member state, e ha utilizzato la propria membership per rafforzare la propria posizione diplomatica anzichè cercare una soluzione al conflitto, arrivando a bloccare lo sviluppo della cooperazione tra UE e NATO. La frustrazione degli altri stati membri si è rivelata nel 2013, quando Cipro ha dovuto chiedere un bail-out e ha ottenuto ben poca solidarietà

L’esempio di Cipro dimostra come i conflitti irrisolti, specie se semi-internalizzati, siano una bomba ad orologeria per le relazioni esterne dell’UE. La Macedonia potrebbe dimostrare la stessa cosa. Inoltre, “quando un governo può sostenere di star affrontando una minaccia all’identità nazionale, può mantenere la propria popolarità nonostante disoccupazione crescente, caduta degli standard di vita, mancanza di pluralismo e cattiva governance.”

Tuttavia l’UE ancora non ha trovato una maniera di affrontare la questione. Nel caso dei Balcani, un allargamento “a blocco” neutralizzerebbe il problema, ma rimanderebbe troppo in là l’adesione. In mancanza di ciò, i conflitti irrisolti (primo tra tutti, quello tra Kosovo e Serbia) andranno disinnescati uno ad uno in maniera definitiva prima dell’adesione di una delle due parti.

#6. L’allargamento non può più essere trattato come una politica estera d’élite

Fino al 2004/2007, l’allargamento UE è stata una politica d’élite, a malapena discusso pubblicamente. Ciò è cambiato radicalmente con lo spauracchio dell'”idraulico polacco”, nel momento in cui la libertà di movimento e stabilimento dei lavoratori dei nuovi paesi membri ha fatto coincidere l’allargamento con il dibattito sull’immigrazione, a sua volta reso intrattabile dalla paura della pressione sui sistemi di welfare nazionali. Il panico insensato dimostratosi nel Regno Unito a fine 2013 per la possibilità di una “invasione” di romeni e bulgari dimostra come l’allargamento sia un’altra vittima collaterale delle politiche d’austerità.

Il panico sull’immigrazione in Europa occidentale ha reso la politica d’allargamento più visibile, e ha contribuito al trend di securitizzazione e di ri-nazionalizzazione di tale politica, con gli stati membri e il Consiglio UE che hanno ripreso l’iniziativa dalle mani della Commissione. L’introduzione di nuovi attori nazionali, a partire dai partiti politici, rischia di rendere la politica d’allargamento “meno prevedibile e più prona al lobbying da parte di interessi particolari all’interno dell’UE – riducendone la coerenza e la credibilità,” con effetti negativi sulla sua efficacia

Potere trasformativo “redux”?

“Spesso l’UE è dipinta come un colonialista, una maestrina o un genitore per i paesi aspiranti membri. In pratica, è una potenza contrastata, incerta e riluttante nella sua stessa regione,” conclude Grabbe. La risorgenza della Russia come sfidante nella sua stessa area potrà determinarne le mosse future. Da una parte, l’allargamento potrebbe riconquistare una motivazione geopolitica e di sicurezza, per “mettere al sicuro” i paesi dei Balcani da ogni tentativo di influenza di Mosca – d’altronde, si dice sostenesse Delors, la geopolitica è più importante della protezione delle industrie domestiche. Dall’altra parte, la mancanza di consenso tra stati membri è il rischio maggiore per la politica d’allargamento. Abbandonare l’allargamento, d’altronde, non porta affatto necessariamente ad una maggiore integrazione dell’UE di oggi, ma si traduce di fatto nella negazione dell’interdipendenza. Una strategia probabilmente non sostenibile.

Foto: Hilary Ostapovitch/Crossroads Foundation, Flickr (CC BY)

Chi è Davide Denti

Dottore di ricerca in Studi Internazionali presso l’Università di Trento, si occupa di integrazione europea dei Balcani occidentali, specialmente Bosnia-Erzegovina.

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