SERBIA: La liberazione di Belgrado come liberazione dalla storia

Mi si permetta di abusare per l’ennesima volta di Churchill, nel ricordare che “i Balcani producono più storia di quanta ne riescano a consumare”. A dirla tutta, negli ultimi anni la macchina sembra essersi fermata, non macinando più grandi sconvolgimenti geopolitici: le ultime due secessioni in ordine temporale, il Montenegro nel 2006 ed il Kosovo nel 2008, sono avvenute in maniera pacifica per quanto, nel secondo caso, non concordata, mentre povertà, crisi economica, disoccupazione, crimine organizzato, promesse elettorali, corruzione e dialogo con l’Unione europea pongono la maggior parte dei piccoli paesi post-jugoslavi a posizionarsi a mezza via tra dei noiosi stati post-moderni (limite superiore) e delle ridicole repubbliche delle banane (limite inferiore).

In questa situazione di mezzo, il rischio di perdere la bussola di indirizzo politico (e con esso quello sociale ed economico) non è virtuale. La storia, in tale contesto, perde il ruolo di puntello identitario di una comunità, divenendo l’esatto contrario di quella che è la sua natura: uno strumento malleabile, fluido, incapace più di indicare chiaramente gli avvenimenti trascorsi, per divenire ancella del qui ed ora, largamente duttile per essere asservita ai bisogni contingenti della politica corrente. In questo senso, la Serbia di oggi ha smesso di produrre storia, ma essendone pur stata fucina infaticabile per tutto il corso del XX secolo, si trova in magazzino riserve infinite da consumare in ordine di preferenza, prima che di stoccaggio.

Parliamo ad esempio della parata militare occorsa per le strade di Belgrado il 16 ottobre scorso, alla presenza dell’ospite d’onore, il presidente russo Putin. La parata, celebrativa del settantesimo anniversario della liberazione di Belgrado (avvenuta invero il 20 ottobre 1944, e non il 16) e chiamata ufficialmente “Passo del vincitore” (Korak pobednika), ha visto sfilare 4500 soldati e 300 mezzi motorizzati dell’esercito serbo, fluviali, aerei e di terra. È stata la prima parata per la liberazione occorsa da ventisei anni a questa parte, e l’unico esito di questo ingente sforzo economico, voluto dal governo serbo in un momento difficile per le sue finanze pubbliche, è stato quello di portare alla luce le grandi contraddizioni ed il cortocircuito storico nel quale si dimena la Serbia presente. Per comprenderne appieno il come, è bene pensare che tali contraddizioni non sono il semplice diniego di un evidente passato comunista, ma gli strati sovrapposti di una cipolla coltivata per oltre un quarto di secolo, la cipolla della mistificazione nazionalista serba.

Gli anni ’90 sono stati indubbiamente caratterizzati dall’anticomunismo: quello dei partiti di destra, cosiddetti ultranazionalisti, che procedevano direttamente alla glorificazione del movimento cetnico, di matrice etnica, monarchica, ortodossa, tradizionalista e conservatrice, ma anche quello del Partito socialista di Milošević, che proveniva sì dai ranghi del Partito comunista serbo, ma che, ripudiando il mito della “fratellanza e unità” dei popoli slavi del sud e la difesa di uno stato federale, aveva abdicato alla chiave di volta dell’ideologia comunista jugoslava.

Con la caduta del regime di Milošević, il processo di distanziamento dall’antifascismo come valore di stato è proseguito nel nuovo millennio, rafforzandosi con l’introduzione di due leggi: la prima, del 2004, ha equiparato il ruolo dei combattenti partigiani e cetnici, con l’obiettivo di sanare, ufficialmente, una storica frattura; la seconda, del 2006, ha riabilitato i condannati per crimini politici della prima Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia, soprattutto per consentire ai discendenti di coloro che si sono visti per questo motivo confiscare le proprietà al termine della guerra di poter fare domanda di riappropriazione. Tale legge è però anche servita per riabilitare diversi personaggi discutibili e membri influenti del governo collaborazionista di Nedić ai tempi dell’occupazione nazista.

Questo processo, maturato nel corso di due decenni, ha perciò prima sganciato l’ideologia comunista dall’antifascismo come valore e azione, equiparando poi, sotto quest’ultimo, partigiani e cetnici, quali espressione di due movimenti contrapposti ma uniti dalla lotta al fascismo, figli, in entrambi i casi, di un unico popolo, quello serbo. Tale lettura storica è quantomeno parziale, da un lato perché i partigiani comunisti erano espressione di tutti i popoli jugoslavi, dall’altro perché se è vero che il movimento cetnico in Serbia aveva per obiettivo la lotta all’invasore tedesco, a seguito della fuga di re Pietro II Karadjordević, avvenuta a ridosso dell’occupazione della Jugoslavia nel 1941, almeno dal 1943 le sue priorità iniziano a mutare, anteponendo la lotta al movimento comunista di Tito a quella contro le forze della Wehrmacht. Con queste ultime si allea anzi apertamente, partecipando alle offensive antipartigiane e finendo per perdere, per tale motivo, prima l’appoggio britannico e poi quello dello stesso re Pietro II, il quale si distanzia definitivamente dai cetnici nel settembre 1944, riconoscendo al contempo l’apporto fondamentale dell’esercito di Tito nella lotta all’invasore.

È pertanto difficile comprendere come oggi il movimento cetnico e quello partigiano possano essere accomunati proprio sotto l’ombrello dell’antifascismo, ed è tanto più interessante tentare di scardinare quale sia eventualmente il messaggio che il governo serbo avrebbe voluto lanciare attraverso il suo “Passo del vincitore”: quale vincitore, e su cosa? Non certo vincitore il partito comunista né il movimento di unificazione jugoslava di Tito, poiché la Serbia di oggi ha ripudiato entrambi e non vi si identifica nemmeno moralmente. Non vincitore sulle forze cetniche, in quanto se di liberazione di Belgrado si parla, si intende senz’altro liberazione dal nazifascismo, e, come già detto, i cetnici oggi rappresentano l’altra faccia dell’antifascismo. Eppure, in quei precisi giorni, per quanto non presenti direttamente nella battaglia di Belgrado, i cetnici lottavano senza ombra di dubbio proprio a fianco non delle forze che liberavano la capitale, ma bensì di quelle che la occupavano. Cosa rappresenta il movimento di liberazione nazionale una volta depurato dell’ideologia che ne costituiva il perno, il comunismo appunto?

Vista la flessibilità nell’anticipare la parata di quattro giorni sulla sua data storica, di modo che allo spettacolo di muscoli potesse partecipare Putin, viene da pensare che l’obiettivo di fondo non fosse quello di celebrare la vittoria del proprio paese, quanto i suoi legami storici con la Russia. Eppure, anche sotto questo punto di vista, bisognerebbe ricordare che la Jugoslavia è stata l’unico esempio in Europa di paese in grado di sconfiggere l’esercito tedesco basandosi quasi esclusivamente sulle proprie forze, con un intervento dell’Armata rossa, per quanto importante, del tutto tardivo, quando il ripiegamento delle forze naziste in Europa era già avviato su più fronti. Fosse stato altrimenti, è difficile ipotizzare come la Jugoslavia avrebbe comunque potuto chiamarsi fuori dalla sfera d’influenza sovietica durante la Guerra fredda. E poi, ancora, come dimenticare la rottura tra Tito e Stalin consumata nel 1948, e la conseguente espulsione della Jugoslavia dal Cominform? Ancora, come considerare quei 4500 soldati e 300 mezzi militari che hanno sfilato sotto la tribuna d’onore? Eredi rappresentanti di quale esercito? Quello partigiano comunista? O dell’Armata popolare jugoslava, la stessa che ha messo a ferro e fuoco Croazia e Bosnia nei sanguinosi anni ’90? E se non di questi, perché sfilare? Troppi nodi che al pettine sembrano spezzarsi, più che dirimersi.

Indubbio è il sentimento filo-russo che domina l’opinione pubblica nazionale, il cui amore per il leader di Mosca supera decisamente quello per il proprio presidente del consiglio Vučić, che per propensione all’autoritarismo sembra appunto la versione timida e provinciale di Putin. La fascinazione dell’uomo comune serbo per ciò che è anti-liberale, reazionario, anti-pluralistico, tradizionalista e conservatore rimane l’unico filo rosso che lega Serbia e Russia nel corso del tempo, oltre ogni incompatibilità storica. La frustrazione per la lentezza del processo di avvicinamento europeo, la mancata realizzazione delle aspirazioni di miglioramento delle condizioni di vita in questo breve ed unico scampolo di tempo in cui i serbi non hanno vissuto in un regime autocratico, sia esso una monarchia, il regime comunista o quello di Milošević, li porta a ripiegarsi ora su alternative che ai loro occhi appaiono più tradizionali e consone al proprio vissuto.

In questo, Putin incarna meravigliosamente la figura dell’uomo solo al comando, capace di sedare ogni forma di dissenso interno e di guidare senza paura il proprio paese a scontrarsi con l’Europa, fino anche all’impiego della forza contro gli stati vicini nella difesa dei propri interessi. Un potere che, nel loro piccolo, i serbi hanno esercitato, e che rimane oggi, come ben sanno, solo un vuoto sogno erotico da consumarsi nell’estatica visione del grande fratello russo e del ricordo di giorni in cui erano loro a dettare le regole nei propri balcanici cortili di casa. E a chi crede che questa visione non sia politicamente corretta, è proprio la classe politica in Serbia a rifarsi cinicamente e coscientemente ad essa, cullando le masse in un continuo sforzo nostalgico, a costo di piegare e riscrivere la storia come fosse un libero tema amatoriale, per nascondere l’assenza di qualsiasi vera idea di governo in grado di trainare la Serbia fuori dalla perpetua stagnazione, ed offrire ai suoi cittadini qualcosa di più utile di carri armati per le strade di Belgrado, che nella sua storia (quella vera) non sono mai stati di buon auspicio.

 Foto: predsjednikrs.net, Kurir, Telegraf

Chi è Filip Stefanović

Filip Stefanović (1988) è un analista economico italiano, attualmente lavora come consulente all'OCSE di Parigi. Nato a Belgrado si è formato presso l’Università commerciale Luigi Bocconi di Milano e la Berlin School of Economics, specializzandosi in economia internazionale. Ha lavorato al centro di ricerche economiche Nomisma di Bologna e come research analyst presso il centro per gli studi industriali CSIL di Milano. Per East Journal scrive di economia e politica dei Balcani occidentali.

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4 commenti

  1. Bravo! Analisi acuta e realistica dell’attuale ‘sentiment’ della Serbia.

  2. eccellente articolo

  3. Nell’articolo non viene citato (e quindi non viene considerato) il fatto che, al di la delle adesioni storiche-sentimentali (pro Russia) la Serbia ha iniziato e persegue, al momento senza tentennamenti, il cammino di adesione alla UE, ormai in una fase molto avanzata: i negoziati per l’adesione vera e propria sono iniziati il 21 gennaio 2014. E che questo pesi sui rapporti Serbia-Russia lo dimostra l’ondivaga posizione serba rispetto al South Stream (si, ma, no, so ma potrebbe essere ni,,,) o anche con le sanzioni EU. La messa “da parte” (per non dire in soffitta) della questione del Kossovo comporta la perdita d’importanza del rapporto con l’unico alleato (la Russia), dato che nell’EU si trovano i maggiori sostenitori dell’indipendenza kossovara.
    Non a caso la visita di Putin si è chiusa con lo stesso Putin imbufalito per la conclusione (filoeuropeista) del discorso del presidente serbo.
    Come sempre va bene il primo amore, ma poi prosaicamente si deve mettere su casa e famiglia.

  4. Complimenti Filip. Un’ articolo un po’ alla petar lukovic…
    Era da aspettarselo, però: data anticipata in un modo leccaculistico, vittoria solo serba e non jugoslava, putin osannato dalla folla manco avesse salvato la serbia da chissà quali catastrofi…
    Con un opinione pubblica del genere questa serbia non potrà mai entrare nell’UE…una serbia così non la vuole nessuno…
    via dalla stretta russa… subito!

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