Chi ha paura del nazionalismo scozzese?

da LONDRA – Il prossimo 18 settembre i cittadini scozzesi saranno chiamati a votare un referendum storico per decidere sull’indipendenza del loro paese. La questione però è tutt’altro che semplice: molte sono le componenti storiche, sociali ed economiche da tenere in considerazione per capire le ragioni di questo referendum e le sue possibili conseguenze locali e internazionali. Non a caso il referendum scozzese è guardato con attenzione, e preoccupazione, da molti paesi europei che temono per la loro integrità nazionale. L’indipendentismo scozzese sfugge però alle facili definizioni. Non l’etnonazionalismo, non la reinvenzione del passato, non l’acredine verso i vicini inglesi: il motto dello Scottish National Party (SNP) e del suo leader, Alex Salmond, First minister e guida del governo locale, è “a partnership of equals”. E malgrado a Westminster tutti i partiti si spendano per evitare la separazione, anche con colpi bassi e qualche ricatto politico, il consenso verso l’indipendenza cresce settimana dopo settimana.

SI LEGGA: L’invenzione dell’identità scozzese e il referendum per l’indipendenza

 Alla prova del mondo globalizzato

La Scozia è una nazione antica, ma il nazionalismo scozzese è relativamente recente. La causa nazionalista in Scozia non ha mai scaldato gli animi: per tutto l’Ottocento fu portata avanti da un ristretto gruppo di intellettuali e si dovette attendere gli anni Venti del secolo scorso, con la nascita del partito nazionalista scozzese,  per cominciare a parlare pubblicamente di indipendenza. Tutto cambiò negli anni Settanta del secolo scorso quando si scoprirono i preziosi giacimenti di petrolio e gas al largo delle coste scozzesi. Il partito nazionalista ebbe allora l’occasione di farsi sentire chiedendo che le ricchezze derivanti dalla produzione di idrocarburi restassero in Scozia. Da quel momento in poi le richieste della società scozzese si fecero sempre più pressanti finché, nel 1997, l’allora primo ministro Tony Blair, nell’ambito della devolution, concesse a Edimburgo un proprio parlamento (Holyrood) e la sovranità su alcune materie. Alle elezioni scozzesi del 2007 lo SNP formò un governo di minoranza ma nel 2011 ottenne il 44% dei voti, formando un governo di maggioranza e soffiando sul vento dell’indipendenza. Un vento che spazzerebbe via trecento anni di storia britannica.

L’atto di Unione con l’Inghilterra, datato 1707, si rese necessario dopo il collasso finanziario dello stato scozzese, uscito malconcio dall’impresa detta di Darién, che prevedeva la colonizzazione dell’istmo di Panama – e del golfo di Darién – allo scopo di rilanciare il commercio internazionale di un paese in dissesto economico. L’impresa fallì miseramente portando allo scoperto la debolezza di una Scozia incapace di fronteggiare le sfide di un mondo che andava globalizzandosi, fatto di barriere tariffarie e guerre mercantili, commerci oceanici e nascenti compagnie finanziarie. Per evitare la bancarotta, il parlamento scozzese  votò per l’unione con l’Inghilterra che, dal canto suo, si accollò il debito del governo scozzese. Molti guardano a quell’evento paragonandolo al presente: potrà la piccola Scozia far fronte da sola alle sfide del mondo globalizzato?

 L’indipendenza per un I-pad?

Potrà, dicono i nazionalisti, grazie agli idrocarburi. Al largo delle coste scozzesi si trovano importanti giacimenti di gas e petrolio che da soli valgono il 20% del Pil. La popolazione residente in Scozia è invece appena il 10% del totale, sei milioni circa. Il calcolo è semplice – dicono i nazionalisti – una Scozia indipendente sarà due volte più ricca che restando con Londra. Un argomento che suona bene a quel milione e trecentomila persone che in Scozia si trovano a vivere sotto la soglia di povertà relativa.

Quella dell’indipendenza scozzese è una questione di soldi, già due anni fa l’Economist scriveva “It’ll cost you”, “ti costerà” Scozia separarti, e citava un sondaggio per il quale il 40% degli scozzesi sarebbe stato contrario alla separazione se questa fosse costata più di 500 sterline l’anno: “L’indipendenza scozzese vale il prezzo di un Ipad”, ironizzava il settimanale. Ma da allora molta acqua è passata sotto i ponti e i sondaggi più recenti mostrano che la forbice tra favorevoli e contrari si riduce costantemente. Se ancora negli ultimi mesi del 2013 i contrari superavano i favorevoli di 15 punti percentuali, questa distanza si è andata dimezzando nei primi mesi del 2014. I sondaggi delle ultime settimane mostrano che la forbice tra favorevoli e contrari si è stretta ulteriormente (per la prima volta un sondaggio ha attestato persino il sorpasso di un punto da parte dei sostenitori dell’indipendenza) e questo malgrado le molte questioni aperte.

 Due opposte visioni della società

A contrapporsi sono due visioni della società. Per farsene un’idea è sufficiente guardare i risultati elettorali delle ultime elezioni nazionali e locali. In Scozia il partito conservatore – attualmente al governo del Regno Unito – prende pochissimi voti e nelle ultime quattro tornate non ha mai ottenuto più di un deputato. Le simpatie della forte e strutturata working class scozzese vanno tradizionalmente ai laburisti e, in misura minore, ai liberali. Questo almeno fino all’arrivo del SNP, capace di coniugare istanze social-democratiche agli interessi della società scozzese.

Così, mentre a Londra tagliano le borse di studio, e le università costano circa diecimila sterline all’anno di tasse, a Edimburgo sono gratuite. La sanità, che Westminster ha deciso in parte di privatizzare, Holyrood la finanzia con le tasse locali. Ma il parlamento scozzese nulla può contro i tagli al settore pubblico decisi dal governo Cameron in nome dell’austerity. Da un lato, insomma, troviamo una visione ‘scozzese’ della società basata sulla solidarietà, sui beni pubblici, sui diritti di cittadinanza, cui si contrappone l’idea ‘inglese’ di  individualismo, privatizzazioni, liberalizzazioni portata avanti dall’alleanza tra conservatori e liberali. E il partito laburista? E’ anche lui contrario all’indipendenza, anche perché in Scozia ha quello zoccolo duro senza il quale mai potrebbe aspirare a vincere le elezioni, ma i sondaggi mostrano come gli elettori laburisti siano inclini, questa volta, a disobbedire al partito.

Sterlina o non sterlina? questo è un problema

Le promesse di Salmond e dei nazionalisti si sono fin qui scontrate con la dura realtà. Il “libro bianco” presentato quale programma dettagliato del progetto indipendentista è stato più volte messo in discussione. Il vero vulnus del “libro bianco” è la politica monetaria, si legge: “La Scozia indipendente continuerà a mantenere la sterlina come valuta e la Banca d’Inghilterra continuerà a essere il garante di ultima istanza” e “negozierà con il Regno Unito quanta parte del debito pubblico farsi carico”. Il 13 febbraio 2013 il Cancelliere dello Scacchiere, George Osborne, ha rigettato l’ipotesi di un’unione monetaria tra Londra ed Edimburgo, negando che la Banca d’Inghilterra possa essere anche banca centrale scozzese. Le difficoltà di avere una stessa valuta senza una politica fiscale comune, e senza essere uno stato federale, hanno convinto Londra a tenersi la sterlina tutta per sé. Per Salmond è un problema: mantenere la sterlina come valuta è uno dei punti centrali del suo programma. Adottare l’euro o una moneta propria è considerato più rischioso e problematico, poiché spaventerebbe investitori e risparmiatori.

La Scozia potrà entrare nell’UE?

Ma è per bocca del presidente della Commissione europea, Jose Manuel Barroso, che è arrivata la seconda doccia fredda: la Scozia non potrà essere membro dell’Unione Europeade facto”, dovrà “fare richiesta [d’adesione, ndr.] e, cosa molto importante, la domanda di adesione e l’adesione all’Unione Europea deve essere approvata da tutti gli altri Paesi membri – ha dichiarato Barroso alla BBC il 16 febbraio scorso – Sarà estremamente difficile ottenere l’approvazione di tutti i Paesi membri per avere un nuovo Stato che nasce da un altro”. Resta poi aperto il nodo del debito pubblico benché Salmond si sia dichiarato disponibile ad accollarsi una “percentuale equa” del debito pubblico britannico.

Le dichiarazioni di Osborne e Barroso sono state vissute dall’opinione pubblica scozzese come un’intimidazione, ma hanno anche spaventato. Cal Flyn, articolista del settimanale britannico New Statement, in The Springtime for Gaelic, scrive: “Gli irlandesi hanno scelto la via dell’indipendenza con ogni forza, e hanno accettato – pur di averla – di vivere in un paese più povero e in condizioni economiche svantaggiate rispetto al Regno Unito. Gli scozzesi non sembrano voler sacrificare nulla alla loro indipendenza, che accetteranno solo se porterà loro dei vantaggi”. E vantaggi, senza sterlina e senza euro, non se ne vedono. Ma è l’Economist, nell’articolo Homage to Caledonia pubblicato il 22 febbraio 2013, a sottolineare come le dichiarazioni di Barroso sembrassero dettate da Madrid, anch’essa alle prese con l’indipendentismo catalano: “è sbagliato insinuare che nuovi stati indipendenti non potranno mai far parte della UE. Il Montenegro e la Macedonia saranno ammessi più rapidamente della Scozia e della Catalogna che già applicano le normative europee?”.

Una guerra bancaria?

Nel 2008 il governo britannico ha dovuto sborsare 37 miliardi di sterline per salvare la Royal Bank of Scotland  (RBS), diventandone così azionista di maggioranza con una quota del 57,9%. L’Economist ha ricordato come il fallimento della RBS sarebbe costato 13 volte l’intero Pil scozzese. Si tratta di una cifra astronomica, soprattutto per una piccola economia come sarebbe quella scozzese. Salmond ha annunciato che, in caso di indipendenza, la Royal Bank of Scotland diventerebbe proprietà di Edimburgo, alla faccia di Londra che ci ha messo i soldi. Non solo, il First minister ha respinto l’ipotesi che il nuovo stato debba prendersi una parte dei 187 miliardi di titoli tossici della RBS: quelli resterebbero in capo a Londra. Non c’è da stupirsi che a Westminster vedano questa opzione come impraticabile e il ministro dell’Economia, Alistair Darling, abbia detto che il destino della RBS non dipende dalla volontà di Edimburgo.

Il petrolio e l’indipendenza

Nonostante questi problemi, una Scozia indipendente avrebbe il sesto Pil pro capite al mondo e, soprattutto, una fonte per ripianare il proprio deficit fiscale rapidamente: il petrolio. Un recente rapporto dell’Institute for fiscal studies britannico mostra come i proventi dell’estrazione del petrolio potrebbero riassestare il bilancio scozzese senza bisogno di ricorrere alle misure di austerità. Ma se, da un lato, il petrolio rappresenta la principale risorsa di una Scozia slegata dal Regno Unito, dall’altro potrebbe esserne il limite. Il sogno di creare un fondo sovrano sul modello norvegese per gestire gli introiti del Brent potrebbe scontrarsi con il progressivo esaurimento dei giacimenti del Mare del Nord. La quantità di greggio estratta è in calo ormai del 6% annuo, nonostante gli sforzi di Shell, Exxon e le altre compagnie per trovare nuovi giacimenti. Non una buona notizia per il Pil scozzese che attualmente dipende per il 18% dal petrolio.

 Una partita truccata?

Quella tra Edimburgo e Londra è ormai una partita in cui, almeno da una parte, sembra essere venuto meno il fair play. Le dichiarazioni di Osborne sull’impossibilità di condividere la sterlina sembrano essere retorica atta a spaventare gli elettori scozzesi se è vero quanto dichiarato al Guardian da un ministro, rimasto anonimo ma che si vocifera essere il segretario alla Difesa, Philip Ammond, che “alla fine verrà consentita l’unione valutaria per garantire stabilità non solo alla Scozia ma anche al Regno Unito”. Immediate le smentite del governo ma in molti, in Scozia, hanno cominciato a pensare che la partita sia truccata. Forse anche all’atteggiamento di Londra si deve l’aumento dei favorevoli all’indipendenza.

 La rimonta della causa indipendentista nei sondaggi si deve forse anche al miope atteggiamento di Londra. La minaccia, più o meno velata, è un arma a doppio taglio e può aver spinto molti scozzesi a rifiutare gli “atti di bullismo” di Westminster, costi quel che costi. Così a Londra è cominciato a salire il panico. Il 10 settembre scorso i leader dei tre principali partiti britannici, David Cameron (primo ministro conservatore), Ed Miliband (leader laburista) e Nick Clegg (leader dei liberali), sono andati a Edimburgo per dare man forte al fronte del “no”. La “gita in Scozia” dei tre, come l’hanno derisa i nazionalisti, testimonia il livello di inquietudine inglese.

Il nazionalismo inglese e la nazionalità scozzese

Ma a dare argomenti agli indipendentisti sono stati proprio loro, gli inglesi, che alle recenti elezioni europee hanno accordato il 27% dei consensi all’UKIP facendone il primo partito del Regno. L’UKIP (Partito per l’Indipendenza del Regno Unito) guidato da Nigel Farage, è un partito ultraconservatore, tradizionalista e antieuropeista che – pur non essendolo apertamente – è percepito come un partito “nazionalista” inglese. Il suo obiettivo politico è l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea ma la crisi economica ha portato molte altre frecce all’arco di Farage: anzitutto l’immigrazione, che “porta via il lavoro” agli inglesi e mette in pericolo la società mutandone i valori tradizionali. Il partito è a favore del conferimento di maggiori poteri alla monarchia e non sono mancate dichiarazioni sessiste che tradiscono una visione patriarcale della società.

L’UKIP parla alla pancia di un paese che esce adesso da cinque anni di durissima crisi e che sembra aver perso di vista quanto le sue fortune siano dipese dall’immigrazione. Un paese che sogna la “vecchia Inghilterra” che non c’è più e che, ovviamente, non interessa nulla agli scozzesi i quali, oltre a non aver votato per l’UKIP, sembrano avere in mente una società diversa. Lo spauracchio di una alleanza tra conservatori e ultraconservatori, cioè tra Tories e UKIP, è stato agitato nelle ultime settimane proprio da Salmond e dai suoi: vogliono gli scozzesi essere governati da partiti votati solo da inglesi e che non li rappresentano in nulla?

Come si è visto il nazionalismo scozzese non ha niente a che vedere con l’etnonazionalismo, la xenofobia, il populismo che invece caratterizza i molti “leghismi” europei. Come scrive Andrew Marr sul New Statement: “Non è il partito nazionalista scozzese, ma il partito nazionale scozzese. Essere a favore dell’indipendenza scozzese non significa essere nazionalisti. Lo SNP di Salmond – prosegue Marr – ha fatto proseliti tra le comunità pakistane, indiane e polacche; è difficile immaginare qualcosa di più lontano dalla retorica della terra e del sangue propria di molti nazionalismi del secolo scorso e di oggi”.

A guardare il Regno Unito, quello scozzese non sembra dunque il nazionalismo più pericoloso.

 

 

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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