Chiacchieravo l’altro giorno con un amico di Belgrado, un serbo del Kosovo, fuggito da Peć (in albanese Pejë) nel 1999. Ad un certo punto mi chiedeva se qui in Italia si parla dell’ultimo rapporto di Dick Marty, sull’espianto di organi da civili e prigionieri di guerra serbi da parte dell’UCK, durante l’ultimo conflitto. Di fronte al suo stupore mi ci è voluto tempo per convincerlo che da noi, come in Europa, la notizia è stata, nella quasi totalità dei casi, bellamente ignorata dai principali canali mediatici. In Serbia, al contrario, le è stata conferita una tale, immeritata portata storica, che sembra impossibile parlare d’altro.
La gravità delle accuse mosse da Dick Marty, peraltro nulla di nuovo date le ormai storiche dichiarazioni di Carla del Ponte ed altri, non è certo da prendere alla leggera, ed il fatto che il Consiglio d’Europa stia seriamente valutando la questione lascia ben sperare sulla possibilità, per una volta, di accertare crimini di guerra commessi non DA ma SU serbi.
Allo stesso tempo, sfortunatamente, la Serbia si dimostra per l’ennesima volta troppo miope per cogliere le reali opportunità dell’affare Marty: la possibilità di punire i colpevoli, accertare i crimini, dare un volto alle tante vittime scomparse nel nulla, e soprattutto stabilire chiaramente quale e quanta parte dell’attuale classe dirigente kosovara, da Tachi in giù, sia stata coinvolta in queste brutali e losche tratte. Proprio in un momento in cui il dialogo tra Belgrado e Pristina appare possibile, la responsabile e pacifica risoluzione di uno dei tanti, dolorosi nodi che ancora stringono i due paesi sarebbe un vigoroso segnale distensivo. I media serbi, invece, presi dall’entusiasmo, hanno caricato la notizia di valenze spropositate. Glissando sulle parole di Dick Marty stesso, che ha precisato di non essere un giudice né di portare sentenze definitive, ma solo argomenti e indizi da vagliare con attenzione, giornalisti e politici hanno colto l’occasione per dichiarare finalmente come tutto ciò che è stato ripetuto negli ultimi dieci anni, ossia che i serbi sono doppiamente vittime, prima degli albanesi, poi della NATO, si sia ora dimostrato vero.Che le politiche di Milosevic rivolte al Kosovo erano appropriate, necessarie per proteggere la popolazione serba (popolazione serba che, invece, era invisa agli albanesi proprio per le politiche dirette da Belgrado), e che gli albanesi, fondamentalmente, erano e rimangono cattivi.
“La Serbia ha atteso per anni davanti alle istituzioni internazionali una tale dichiarazione”, ha dichiarato il presidente serbo Tadic, sottolineando come negli anni passati la Serbia sia stata sempre rappresentata come unica colpevole degli orrori perpetrati su suolo ex-jugoslavo, mentre oggi, dopo il rapporto Marty, simili letture “cadono nel vuoto”.
Sembra insomma che più della verità dei fatti, alla Serbia interessi trovare il modo di scaricare ad altri la disastrosa responsabilità per la storia degli ultimi vent’anni. Illusione che si dimostrerà, per forza di cose, doppiamente fallimentare: da un lato perché non è passando di mano in mano il cerino acceso delle responsabilità belliche che si arriverà ad una riappacificazione, ma solo attraverso una cosciente, obiettiva e condivisa rilettura dei fatti, in cui ciascun popolo, prima di chiedere giustizia ai vicini, dovrà rimediare ai propri errori (e la Serbia, nei confronti degli albanesi del Kosovo, ne ha compiuti un’enormità); dall’altro, perché la generalizzata immagine di vittima che la Serbia cerca di ritagliarsi, non potendo ovviamente risultare credibile agli occhi del mondo, rischia solo, come già accadde quindici anni fa con i serbi della Krajina, di soffocare le richieste di giustizia di quei serbi che veramente hanno sofferto, e che sono stati doppiamente traditi da Belgrado. La prima volta nella carne, la seconda, nella memoria.
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