MYANMAR: Viaggio in un' Asia che sta scomparendo

Il mio viaggio in Myanmar, nel febbraio del 2010, ebbe inizio al mercato di Yangon, dove mi recai non appena misi piede sul suolo birmano, per dar seguito ad un prezioso suggerimento di Mark, un tedesco veterano di viaggi in Asia incontrato a Bangkok: “all’aeroporto cambia giusto qualche spicciolo per arrivare in città, il grosso dei soldi cambialo al mercato nero, se lo fai nelle banche o ai cambi ufficiali il valore del tuo denaro sarà dimezzato, e le tasche dei militari ancor più gonfie. La valuta migliore da portare nel paese è il dollaro ma mi raccomando, le banconote devono esser in perfetto stato e posteriori al 2003, altrimenti non le accettano!” .“Ti innamorerai di quel paese, della sua gente, dei paesaggi e della magia delle sue atmosfere, ne sono sicuro! Il Myanmar sta cambiando alla velocità della luce ed io credo, sinceramente, che tu sia già in ritardo”, mi disse Mark, dall’alto della sua dozzina di viaggi nel paese delle pagode d’oro e di Aung San Suu Kyi.

Fu così che mi ritrovai, in tempo zero e senza il minimo problema, con due mazzette di Kiat birmani in mano, in cambio di duecento dollari americani. Mazzette enormi, tenute insieme a stento da un paio di elastici, talmente grosse da non saper dove metterle.

Il Myanmar nel 2010 era sottoposto a sanzioni internazionali oggi in gran parte revocate a causa delle politiche e delle violazioni dei diritti umani della giunta militare al governo dopo il colpo di stato del 1988.

Il paese era, all’epoca, ancora privo di bancomat e sottoposto al divieto di transazioni internazionali di denaro, anche se già quattro anni fa erano evidenti aperture impensabili pochi anni prima.

Il Myanmar già da qualche anno si era concesso ad un primo, timido turismo. Nel periodo del mio arrivo stavano già sorgendo i primi grandi alberghi e i resort di lusso, preludio dei giorni attuali in cui il paese è ampiamente sponsorizzato nei depliants di tutto il mondo; bus di viaggi organizzati e guide turistiche accompagnano oggi gruppi di turisti a visitare i suoi meravigliosi templi e a navigare sulle acque del lago Inle.

Nonostante le avvisaglie di quello che avviene oggi fossero già ben evidenti nel 2010, il viaggio in Birmania fu per me un emozionante tuffo nel passato: condivisi con viaggiatori locali il tetto di vecchi bus, godendo del verde paesaggio birmano e fumando, in loro compagnia, ottimi sigari dall’aroma profumato; percorsi strade polverose, dissestate dai monsoni e dall’incuria, tra camioncini decrepiti, carri trainati da buoi, biciclette, taxi collettivi stracolmi di persone, capre, cani randagi, carretti di frutta e verdura; viaggiai su treni lenti e sbuffanti, assaporando l’aria calda e profumata sul mio viso, seduto in prossimità della porta del treno, ovviamente spalancata. Ad ogni curva i vagoni parevano sul punto di ribaltarsi! Più che viaggi in treno mi parvero emozionanti cavalcate di puledri imbizzarriti. Ritardi puntuali e clamorosi, più o meno in linea con quelli di Trenitalia, a fronte di prezzi infinitamente inferiori e divertimento di gran lunga superiore.

Sul lago Inle navigai su piccole piroghe tra casette costruite su palafitte di legno, giardini flottanti, assistendo allo spettacolo dei gesti lenti ed eleganti dei funambolici pescatori di etnia Intha originari della zona: a poppa delle loro imbarcazioni, stando in equilibrio su un piede, vogano, con movenze da abili ballerini, con l’interno dell’altra gamba, appoggiando il remo in corrispondenza della caviglia.

Mi persi in mercati pullulanti di colori e umanità, passai mattinate e pomeriggi  nei monasteri in compagnia di monaci buddisti, camminai per tre meravigliose giornate nella campagna birmana nel corso di un trekking tra la piccola città di Kalaw e il lago Inle.

Ventotto giorni indimenticabili, il massimo consentito dal mio visto, con un itinerario più o meno obbligato tra l’ex capitale Yangon, la città di Mandalay, sul fiume Irrawaddy, circondata da Amarapura, “la città immortale”, da Mingun (meta di pellegrinaggio dei birmani che vi si recano per suonare in segno di devozione la campana più grande del mondo del peso di 90 tonnellate), fino alle sponde del lago Inle.

Un percorso che però frustrò, perlomeno in parte, le mie ambizioni di entrare a contatto e capire davvero la realtà e le contraddizioni del paese. La maggior parte del territorio birmano rimaneva assolutamente inaccessibile per volere dei militari e alcune regioni straordinariamente interessanti richiedevano un permesso speciale quasi impossibile da ottenere.

Ciò che realmente avveniva nel paese, come la guerra tra la giunta militare e le minoranze etniche dei Karen e degli Shan, la repressione nei confronti dei Rohingya, musulmani dello stato di Rakhine, la pratica del lavoro forzato a cui sono sottoposti prigionieri politici e comuni era ovviamente tenuto ben nascosto alla vista di turisti e di viaggiatori come il sottoscritto.

Nonostante ciò, non fu difficile farsi una idea dei problemi del paese e delle dure condizioni di vita della sua splendida e ospitale popolazione.

Mark ebbe ragione in tutto: mi innamorai del Myanmar, delle sue magiche atmosfere e della sua splendida gente. Ebbi sì la sensazione di esser già giunto in ritardo, ma constatai anche come bastasse una minima iniziativa come una piccola camminata o l’affitto di una bicicletta per uscire dagli itinerari più battuti e scontati, per ritrovarsi immersi in atmosfere davvero d’altri tempi, ormai quasi impossibili da ritrovare negli altri paesi del sud est asiatico.

Il paradosso del Myanmar è che la dura dittatura militare ha portato gravi e pesanti restrizioni ai diritti civili e democratici, grande sofferenza tra la popolazione ma la totale chiusura verso l’esterno ha per lunghi anni preservato l’anima del paese e della sua gente.

Ai nostri giorni sta avvenendo l’esatto contrario: il Myanmar si sta aprendo con una rapidità impressionante, un fattore sicuramente per molti aspetti positivo (ma a chi stanno andando i vantaggi di questa apertura? Il popolo birmano ne sta beneficiando? ), eleganti business men concludono affari milionari e ottengono appalti per conto di multinazionali internazionali per lo sfruttamento delle incredibili ricchezze e risorse del paese, divenuto il nuovo Eldorado degli investitori grazie ai suoi enormi giacimenti di petrolio, gas, minerali e pietre preziose.

Con altrettanta rapidità si stanno però compromettendo stili di vita e tradizioni millenarie e la stragrande maggioranza della popolazione, a cui nulla ritorna di questi business milionari, rimane tra le più povere al mondo.

Oggi colorate mongolfiere, nelle mattinate dai venti gentili che vanno da ottobre a marzo, portano i turisti a volare sullo straordinario complesso archeologico di Bagan, antica capitale del regno birmano tra il X e il XIII secolo, al “modico” costo di trecento dollari a persona (oltre un quarto dei quasi sessanta milioni di birmani vive con meno di un dollaro al giorno!) comprensivi di trasferimento dall’ hotel su un “suggestivo bus d’epoca” ,con offerta di dolcini e coppa di champagne al ritorno, dopo un dolce atterraggio sulle rive del fiume Irrawaddy.

Così, a naso, non mi pare un buon segno…

Nel corso del mio viaggio mi sono perso, mannaggia a me, i nuovissimi resorts di lusso e l’indimenticabile “sunrise champagne flight” in mongolfiera! Avrei avuto la splendida opportunità di  spendere,  in soli quarantacinque minuti, la cifra spesa in un mese di viaggio. Con la piccola compatta da due soldi che possedevo all’epoca, le foto dall’alto sarebbero state uno schifo, ma vuoi mettere la soddisfazione di assaporare un tipico prodotto locale come lo champagne in compagnia di un commercialista americano o di un notaio svizzero?

Le fotografie “dal basso”, belle o brutte che siano, in compagnia della popolazione locale, furono invece gratis, così come tutti gli impagabili momenti e le splendide esperienze di vita vissute con i soggetti immortalati e con le persone incontrate nel corso di quei giorni birmani.

Benvenuti in Myanmar, alla scoperta di un’Asia che sta scomparendo qui il reportage fotografico

Chi è Luca Vasconi

Nato a Torino il 24 marzo 1973, fotografo freelance dal 2012. Laureato in Scienze Politiche all’Università di Torino, dopo alcuni anni di vita d’ufficio piuttosto deprimenti decide di mettersi in gioco e abbandonare lavoro. Negli anni successivi viaggerà per il mondo alla ricerca dell'umanità variopinta che lo compone.

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Un commento

  1. Dio, ogni volta che leggo un suo articolo, mi si apre un mondo. Un mondo che vorrei poter vivere un po’ anch’io. Forse un giorno ce la farò. Ma grazie, veramente grazie di condividere la sua esperienza con noi tutti.

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