Arrivai in Armenia ad una settimana di distanza dalle elezioni presidenziali che si tennero nel paese il 18 febbraio 2013 e che videro la contestata rielezione del presidente uscente Serzh Sargsyan. Una turbolenta, tesa e polemica campagna elettorale aveva caratterizzato il periodo pre-elettorale: i principali partiti d’opposizione avevano boicottato il voto, decidendo di non presentare alcun candidato.
Meno di un anno prima, nel maggio 2012, gli armeni avevano votato alle elezioni parlamentari. Il Partito Repubblicano d’Armenia del presidente Sargsyan aveva ottenuto la maggioranza e formato il governo. I partiti all’opposizione, non riconoscendo la legittimità delle elezioni, avevano clamorosamente deciso di non presentare candidati alle elezioni presidenziali, previste a distanza di pochi mesi, nel febbraio 2013.
I due principali avversari del presidente Sargsyan, il primo presidente armeno e leader dell’opposizione del Congresso Nazionale Armeno Lewon-Ter Petrosyan e il magnate Tsarukyan Gagik, leader del partito Armenia Prospera, erano così usciti dai giochi, autoescludendosi per protesta.
Il 31 gennaio del 2013, tre settimane prima del mio arrivo, un grave fatto scosse il paese: il tentativo di omicidio del candidato Paruyr Hayrikyan, colpito da un colpo di pistola alla clavicola, fortunatamente fallì. Hayrikyan, insieme agli altri due candidati all’opposizione Raffi Hovannisian e Hrant Bagratyan, era uno dei principali avversari di Sargsyan.
Le elezioni del 18 febbraio 2013 videro, sotto gli occhi degli osservatori internazionali dell’OSCE, la riconferma di Sargsyan. Una rielezione quasi scontata, in mancanza di accordi tra i partiti d’opposizione e in assenza dei suoi più temibili e accreditati rivali. Il presidente ottenne il 59% dei voti, battendo Hovannisian, leader dei liberali che si fermò al 37%. Un misero 4% andò agli altri candidati. La percentuale di votanti fu molto bassa. Solamente il 60 % degli aventi diritto si recò alle urne.
Lo sconfitto Hovannisian non riconobbe la legittimità del voto e accusò il suo avversario di brogli elettorali, a conferma della tradizione di “poca trasparenza democratica”, che fin dal 1991, anno dell’indipendenza dell’Armenia dall’Unione Sovietica, caratterizza la vita politica del piccolo paese del Caucaso. I sostenitori dello sconfitto, in compagnia di numerosi attivisti politici, si riversarono numerosi nelle piazze.
Memore dei gravi fatti che seguirono le elezioni presidenziali del 2008, la Farnesina sconsigliava in quei giorni di recarsi in Armenia e raccomandava vivamente ai connazionali che si trovavano nel paese di tenersi il più lontano possibile dalle proteste di piazza, in particolar modo nella capitale Yerevan.
Nel febbraio 2008, Serzh Sargsyan era stato eletto (con il 52,8 % del voto popolare) battendo Lewon Ter-Petrosyan, il primo presidente dell’Armenia. I sostenitori di quest’ultimo si riunirono a Yerevan, in piazza Libertà, per protestare contro presunti brogli elettorali. Polizia ed esercito, nel tentativo di ristabilire l’ordine, si scontrarono duramente con i manifestanti: dieci persone, otto manifestanti e due poliziotti, persero la vita in quei tragici scontri.
Memore dei precedenti consigli della Farnesina, a dir poco prudenziali, riguardo a paesi poi tranquillamente visitati, varcai la frontiera tra Georgia ed Armenia, con un motivo di interesse in più per visitare questo splendido ed accogliente paese.
Armen Sargsyan, il simpatico proprietario dell’ostello in cui alloggiavo, che per un curioso caso del destino porta lo stesso cognome del presidente da lui osteggiato, mi diede le prime gradite informazioni sulla situazione politica armena, fornendomi la sua visione dei fatti. Con lui e i suoi amici seguii le manifestazioni che, a fine febbraio, si tennero nella capitale Yerevan.
Le contestazioni furono accese ma assolutamente pacifiche.
Militari e poliziotti, probabilmente ben istruiti a non ripetere i tragici errori commessi cinque anni prima “accompagnarono le manifestazioni” mostrando una predisposizione al dialogo con i manifestanti che mi stupì non poco. Ero reduce da un inverno passato ad Istanbul, e la situazione nella splendida città sul Bosforo era ben differente: i bruschi modi utilizzati da una polizia in perenne assetto di guerra, durante le tante piccole manifestazioni di protesta non erano altro che il preludio dei “simpatici” modi utilizzati durante le proteste di Gezi Park.
Le manifestazioni segnarono l’inizio di una lunga primavera di proteste in Armenia.
In questi giorni, emulando, seppur in toni e numeri minori, gli ucraini che stanno protestando contro la decisione del presidente Yanukovych di far saltare la firma dell’accordo di associazione all’Unione Europea, tradendo Bruxelles in favore di Mosca, gli armeni sono tornati a protestare nelle piazze.
Guidati da Paruyr Hayrikyan, il leader del partito Unione Nazionale per l’Autodeterminazione scampato al tentato omicidio nelle settimana precedenti le ultime elezioni presidenziali, chiedono al presidente Sargsyan di riconsiderare la decisione di voler aderire all’Unione doganale Euroasiatica.
Un accordo che, secondo i manifestanti, assoggetterebbe l’Armenia al pericoloso abbraccio della Russia di Putin.
Il mio amico Armen è tornato in piazza a manifestare.
I ricordi delle intense giornate passate con lui nelle piazze di Yerevan sono tornati vivi nella mia mente.
Questa è la testimonianza delle proteste del febbraio 2013, che hanno dato il via alla calda primavera armena: qui il reportage fotografico