È morto di una veloce malattia, il 29 ottobre, all’età di settantasei anni, Srđa Popović, storico avvocato e intellettuale di spicco nel panorama serbo. Famoso alla cronaca nazionale e non per aver difeso nel corso della carriera personaggi che avrebbero segnato la storia degli anni ’90, da Tuđman, a Šešelj, a Paraga e Arkan, è stato il fondatore del settimanale Vreme, tutt’oggi il più importante periodico serbo, ed un aspro oppositore di Milošević. Esule volontario negli Stati Uniti, ha fatto ritorno in Serbia a seguito dei moti del 5 ottobre. Negli ultimi anni è rimasto celebre alla cronaca per aver difeso la famiglia Đinđić nel processo intentato contro lo Stato per l’assassinio dell’ex premier. Ha continuato insistentemente fino a poche settimane fa a far sentire la sua voce sui media nazionali e nei circuiti intellettuali (principalmente il programma radiofonico Peščanik), sempre acuto osservatore della realtà che lo circondava e del paese nel quale viveva. Lo ricordiamo con un articolo tratto dal quotidiano online e-novine. (Filip Stefanović)
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È morto a Belgrado il 29 ottobre Srđa Popović, fermo e duraturo difensore dei diritti umani, famoso avvocato, la cui opera ha segnato decenni di lotte per la libertà di parola e di associazione, di pensiero critico e di espressione artistica, analista politico di una realtà caotica, dalle esatte, infelici previsioni. Ha difeso molti di cui era più coraggioso e più istruito, veri democratici, e, come si scoprirà poi, veri mostri, ha lottato per il loro diritto di esprimersi in pubblico e non tollerare la tortura: non si è mai pentito per la difesa di tale diritto, anche se è stato successivamente feroce oppositore dei suoi clienti più famosi, tra i quali qualcuno avrebbe preso poi parte agli stermini di massa di persone innocenti e alla brutale distruzione di un paese che egli viveva come suo.
Il punto a favore che ha segnato Srđa Popović con l’ultimo grande processo famoso al pubblico, quello per il retroscena politico dell’assassinio del premier serbo Zoran Đinđić, parla dell’importanza degli ideali nella vita e nella carriera, dedicate entrambe senza calcoli di sorta alla lotta per il diritto, la giustizia, la libertà. Misurato per il numero di anni di prigione dei suoi assistiti, per non parlare dei libri bruciati, Srđa Popović è stato e rimasto un perdente in mezzo a migliaia di attori ed avvocati – nessuno era suo conoscente, in nessun caso, e in pochi hanno giudicato equilibratamente i suoi assistiti, persino per i cattivi e retrogradi standard di allora.
Da questa prospettiva, sarebbe stato certo meglio che alcuni dei clienti di Popović non avessero spiccicato parola in pubblico. Lui non ci pensava a quel tempo, negli anni sessanta e poi, quanto gli era costato e se ne fosse valsa la pena, forse non se lo è nemmeno chiesto. Come se avesse coltivato per anni una grande vittoria sulle ineluttabili sconfitte nello scontro contro i forti e gli arroganti.
Ha scritto centinaia di migliaia di pagine sulla difesa di pensiero e di espressione, alcune delle quali uomini del mestiere considerano brillanti e da antologia. La propaganda di stato, ad ogni modo, l’ha stigmatizzato nella maniera più violenta per una firma, sotto a una lettera del settembre 1993, con la quale, insieme ad alcuni intellettuali mondiali di prima classe, aveva chiesto l’impiego della forza contro le forze armate dei serbi bosniaci che assediavano Sarajevo. Richiedeva che l’aggressore venisse chiaramente avvertito che “il cambiamento violento dei confini e la pulizia etnica, sia essa a opera della Serbia in Croazia o Bosnia Erzegovina, o opera della Croazia in Bosnia, non verrà tollerato, ancor meno consentito”. Di nuovo, come in pace, difendeva le vittime.
Da New York aveva allora dichiarato: «Io sono, naturalmente, un cittadino jugoslavo, con passaporto jugoslavo e tornerei volentieri se Milošević non avesse devastato il paese. Non ho dove tornare. Ciò che lui chiama “Jugoslavia” è solo un sanguinolento covo di banditi».
Dall’inizio degli anni novanta, il suo impegno è divenuto soprattutto antimilitarista. Ha fondato il settimanale indipendente Vreme, una delle risposte più aspre alla politica egemonica e gran-serba di Belgrado. Nell’ultima intervista, a settembre di quest’anno, ritornerà con la memoria a quel periodo e constaterà che le conseguenze negative dell’allora risvegliato nazionalismo sono ancora tra noi. Ci fornirà, come sempre, un’insindacabile, tragica e scoraggiante diagnosi: «Ritengo che Milošević abbia stuprato la Serbia e che la Serbia ammetta ciò con difficoltà. Abbiamo vissuto l’intervento della NATO, perso qualsiasi credibilità e immagine nel mondo, abbiamo fatto bancarotta finanziaria e morale, e la società è in condizioni tali che si fa fatica anche solo a parlare di società».
Srđa Popović nobilitiva e ispirava chiunque avesse la fortuna di parlarci. Conquistava con lo spirito, col carisma da vero signore, istruiva i giovani senza difficoltà apparente, senza intenzione, giusto rilasciando chiaramente ed autorevolmente le sue posizioni, o sollevando un dubbio.
Nella società, non-società serba, come la classificava lui, era, per la maggior parte degli oppositori, giusto un incidente, un inutile oppositore del consenso nazionale, più o meno ossessionato dalle proprie idee. Era un premio del quale il vincitore non si congratula, perché non sa che farsene.
In un mare di paragrafi, sommari, richieste, cause, appelli, respingimenti, è stato, prima di tutto, un uomo.
Per una maggiore conoscenza: nel periodo diciamo “titino” ha combattuto per la libertà e contro i soprusi del regime?
Caro Bonaiti, direi di sì, ha difeso ad esempio (e a memoria) i giovani della Facoltà di filosofia (tra i quali un Djindjic ancora studente), professori e dissidenti del ’68 jugoslavo, nel 1976 è finito sulla copertina del Times come “uomo a lungo attaccato in Jugoslavia perché uno di quei rari uomini e donne che difendono coloro che sono perseguitati solo sulla base delle proprie idee”. Di se diceva che “era da sempre jugoslavo, anche se trovava problematica quella sorta di identificazione, ma che il problema della Jugoslavia stava nel fatto che non poteva diventare un paese democratico”.
Grazie Filip