TURCHIA: "Segheremo gli alberi". E i 'fratelli poliziotti' sgomberano piazza Taksim

Segheremo gli alberi del parco, saranno ripiantati in un altro posto” ha detto Erdogan mentre la polizia in tenuta antisommossa è entrata in forze in piazza Taksim a Istanbul “liberandola” dai manifestanti. Dopo l’ingresso della polizia in piazza, il governatore di Istanbul ha assicurato: “Non toccheremo assolutamente nessuno a Gezi Park e a Taksim”. Poi, rivolto ai manifestanti, ha aggiunto: “Non vi toccheremo” e “da stamattina siete affidati ai vostri fratelli poliziotti”, invitando i suoi interlocutori a “guardarsi da possibili azioni di provocatori”. Alcuni blindati della polizia sono stati mostrati dalla Cnn mentre girano per una piazza Taksim deserta. I “fratelli poliziotti,” dopo avere pestato, ucciso, sparato  lacrimogeni e gas urticanti, prendono in consegna il luogo simbolo della rivolta. Il premier Erdogan  ha poi annunciato di voler incontrare i rappresentanti della protesta, in una mossa che sembra rivelare un cambio di tattica politica. Finisce così, dopo dieci giorni, l’occupazione di piazza Taksim.

Le colpe di Erdogan: troppe riforme incompiute

La protesta però non sembra finire qui e le manifestazioni ad Ankara, come in altre città dell’Anatolia, daranno ancora filo da torcere al premier Erdogan che, dopo dieci anni di crescita economica, si è trovato impreparato di fronte a una protesta che ne chiede le dimissioni. La politica sempre più muscolare del primo ministro non piace ai giovani di piazza Takim che, come molti in Europa, si aspettavano forse di più da Erdogan per quanto riguarda le libertà democratiche e i diritti umani. Il governo dell’Akp, pur limitando il potere dell’esercito, non ha spinto fino in fondo il processo di riforma dello Stato e ampie sacche di autoritarismo si sono conservate: le modifiche formali al sistema giudiziario e al codice penale sono rimaste inapplicate nella prassi. A guardarla da fuori, la Turchia di Erdogan sembra un paese avviato alla democrazia. Visto da dentro il governo islamico moderato di Erdogan ha ereditato l’autoritarismo contro cui si era battuto, quello dell’esercito e del kemalismo imperante.

La generazione Taksim alla prova della politica

Secondo uno studio condotto dall’università Bilgi circa il 70% degli intervistati, tra i manifestanti di piazza Taksim, si dice lontano da qualsiasi partito. La “generazione di Taksim” non si riconosce nell’Akp, il partito islamico moderato di Erdogan, ma nemmeno nel Chp (il partito kemalista all’opposizione) e tantomeno nel Mhp (partito nazionalista radicale). La protesta nasce anche da questo deficit di rappresentanza e la generazione di Taksim rappresenta quindi una nuova forza politica, non ancora parlamentare, che rivendica con forza maggiore democrazia.

La piazza si trova ora di fronte a un dilemma: come proseguire lo scontro? Radicalizzarsi o cercare un dialogo? Una scelta ancor più difficile alla luce del carattere spontaneo e non organizzato delle rivolte. La proposta di Erdogan di incontrare i leader delle proteste costringe la massa di “anonymous” a darsi un volto, a rendersi riconoscibile, a organizzarsi, e quindi a farsi politica e perciò digeribile, nel medio termine, dal sistema. D’altro canto lo scontro a oltranza potrebbe risvegliare i sonni dell’esercito o essere strumentalizzato da forze politiche reazionarie in vista delle prossime elezioni del 2014.

Un tentativo di auto-organizzazione è emerso recentemente sotto il nome di “Solidarietà di Taksim” (Taksim dayanışması) e si compone di urbanisti, docenti, universitari, rappresentanti sindacali del Disk (sindacato di sinistra), membri della camera degli architetti. Il comitato si propone di organizzare la mobilitazione intorno alla piazza e raccogliere le donazioni o individuare i bisogni materiali per l’occupazione e le proteste (cibo, acqua, coperte, tende). La “Solidarietà di Taksim” è anche un “coordinamento” che si riunisce, nei pressi del parco Gezi, ogni mattina per cercare di strutturare l’eterogeneo movimento di protesta. Le sue capacità si limitano però a poche realtà, tutte per altro concentrate a istanbul, e non rappresenta le proteste di Ankara o Smirne.

Tuttavia questa piattaforma ha presentatto al vicepremier Bülent Arınç una serie di rivendicazioni molto concrete: dalla condanna dei responsabili delle violenze alla liberazione dei prigionieri; dal divieto di usare lacrimogeni alla fine delle misure repressive; dal garantire il diritto di sciopero e le libertà d’espressione del dissenso all’abbandono del piano di distruzione del parco. Nessuna richiesta di dimissioni nei confronti di Erdogan. Una linea “morbida” che già non è riconosciuta da coloro che da giorni occupano la piazza, né da chi si riconosce nei movimenti di sinistra ma nemmeno piace a quei manifestanti che votano per l’estrema destra nazionalista. Il rischio è che, persa la spinta iniziale in cui tutte le anime della Turchia si sono unite in un fronte comune, emergano distinguo tali da fare il gioco del governo, ben felice di un eventuale divide et impera e pronto a legittimare quelle componenti della protesta che si propongono come meno radicali ma che sono forse anche meno rappresentative.

 

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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