Dopo ben otto mesi di tentennamenti, il 26 e il 27 febbraio ad Almaty si è svolto l’ennesimo round dei negoziati sul programma nucleare iraniano. Il gruppo P5+1, composto da Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Cina, Russia e Germania, ha incontrato i rappresentanti iraniani, guidati da Saeed Jalili, per recitare un copione che nell’ultimo anno ha riservato pochi colpi di scena.
L’Iran continua a rivendicare il proprio diritto ad arricchire l’uranio per fini pacifici, mentre la comunità internazionale accusa Teheran di progettare un arsenale nucleare. Intanto l’economia iraniana boccheggia, asfissiata dalle sanzioni internazionali. Da anni i negoziati annaspano in un pantano di recriminazioni e diffidenza, ma l’incontro di fine febbraio sembra offrire almeno tre ragioni per sperare.
Innanzitutto, contrariamente ai soliti tempi lunghi dei battibecchi diplomatici, questa volta sono già state fissate le date dei prossimi incontri: il 18 marzo a Istanbul e il 5-6 aprile di nuovo ad Almaty. Inoltre, per la prima volta, i rappresentanti del gruppo P5+1 hanno proposto esplicitamente un timido alleviamento delle sanzioni, in particolar modo nel commercio dei metalli preziosi e nel settore petrolchimico. Infine, la comunità internazionale sembra aver compreso che i negoziati possono aver successo solo offrendo all’Iran una possibilità di uscirne con dignità e ha quindi modificato non le richieste, ma la terminologia con cui queste sono espresse.
Lo stesso Jalili questa volta ha definito “più realistiche” le proposte della comunità internazionale rispetto all’ultimo incontro, tenutosi a Mosca il 3 luglio 2012. Questo era stato fallimentare anche perché le potenze mondiali erano rimaste ancorate alla strategia detta dello “stop-shut-ship”, chiedendo a Teheran di fermare l’arricchimento dell’uranio al 20 per cento, di chiudere lo stabilimento sotterraneo di Fordo e di esportare le riserve di uranio arricchito accumulate fino ad ora. Ma Teheran ha già troppe centrifughe in azione e ha già investito troppo sul piano economico e politico per accettare di rinunciare del tutto al suo programma nucleare. Ora quindi si parla di “sospendere” temporaneamente le attività di arricchimento e di “modificare” gli equipaggiamenti di Fordo. Inoltre la comunità internazionale si è offerta di fornire al Paese il combustibile nucleare necessario per il Research Reactor di Teheran, impegnato in ricerche in campo medico che, stando alle dichiarazioni del governo iraniano, giustificherebbero il suo arricchimento di uranio.
Ai negoziati politici del gruppo P5+1 sono affiancati i negoziati tecnici che coinvolgono invece l’agenzia contro la proliferazione nucleare, l’Aiea. L’ultimo di questi incontri tecnici, svoltosi a metà gennaio, è finito in un nulla di fatto e le speranze non sono alte neanche per il prossimo, previsto per oggi, 18 marzo, a Istanbul. L’Aiea ha chiesto nuovamente di accedere alla base militare di Parchin ma è probabile che il governo iraniano, prima di aprire alle ispezioni, voglia garanzie più sostanziose di quelle ottenute finora. Secondo il negoziatore iraniano Jalili, al momento per l’Iran non è tanto importante che si proceda a “piccoli passi”, quanto piuttosto che questi passi siano percepiti come “equilibrati” e cioè che le concessioni iraniane siano proporzionate a quelle della comunità internazionale. Inoltre una posizione chiara di Teheran probabilmente non emergerà fino alle elezioni presidenziali iraniane, previste per il 14 giugno 2013, anche se non è cosa da poco che le parti abbiano deciso di continuare a incontrarsi in un momento così delicato della politica interna iraniana. Il tavolo dei negoziati resta comunque traballante e permane il pericolo che venga rovesciato dalla retorica del presidente israeliano,
Benjamin Netanyahu, che continua a invocare una “minaccia militare credibile” contro il nucleare iraniano, liquidando la via diplomatica come un mero tentativo di guadagnare tempo. Secondo il think tank statunitense Council on Foreign Relations, al momento l’Iran avrebbe circa 167 chilogrammi di uranio arricchito al 20 per cento dei 250 chili necessari per produrre un ordigno nucleare di scarsa portata. Gli allarmismi israeliani sarebbero quindi anche comprensibili se non fosse che, come ricorda un articolo del quotidiano britannico The Guardian, Netanhyahu parla di una “imminente” minaccia nucleare dal 1992.
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