CINEMA: Krugovi, una storia jugoslava per jugoslavi

DA BERLINO – “È un evento dal quale tutti noi non potremo scappare fintanto che siamo vivi”, dice il regista serbo Srdan Golubović, riferendosi alle guerre in Jugoslavia. Il suo film, Krugovi (Circles, in italiano Cerchi), dopo aver vinto il premio speciale della giuria al Sundance Film Festival di Park City, ha portato a casa anche quello della Giuria Ecumenica al Festival internazionale del cinema di Berlino, chiusosi domenica 17 febbraio.

La pellicola, caratterizzata da una fotografia perfetta e sofferente, ispirata alla vera storia di Srdjan Aleksić, ragazzo serbo ammazzato di botte a Trebinje nel 1993 da soldati serbi, nel tentare di proteggere un amico musulmano, esplora le conseguenze del gesto, e come esso abbia segnato la vita dei suoi protagonisti a vent’anni di distanza. Ad intrecciarsi sono le vicende del padre della vittima, di un suo amico chirurgo, presente al momento della morte (e che oggi si trova davanti all’eventualità di operarne l’assassino, a Belgrado), del bosgnacco che gli deve la vita, e che ora vive in Germania, e della sua ex fidanzata.

È proprio il padre, Ranko (un ottimo Aleksandar Berček), che sembra incarnare il messaggio del film, e rivelarne la verità più spaventosa: “Quando un uomo compie un’opera buona, questa, per le altre persone, non significa nulla”. Eppure, prosegue, “quando lanci un sasso in acqua, qualcosa succede… compaiono quei cerchi”. Come a voler dire che, nell’inumana insensatezza del dolore, la speranza che in fondo qualcosa, forse, possa essere mosso dal sacrificio di una giovane vita, perdura: è su questo incessante filo, tra speranza e disperata incomunicabilità della sofferenza, che l’intera storia corre. I cerchi del film sono molteplici: quelli tra i diversi personaggi, legati vicendevolmente dal tragico incidente che ha segnato le loro vite; quelli che come increspature d’acqua si allargano, silenziosi, sullo stagno di una Bosnia sconfitta, cercando il senso della loro stessa apparizione; quei cerchi, infine, interiori ad ognuno dei protagonisti, i quali, come si direbbe in ex-Jugoslavia, lete kao muve bez glave, volano come mosche senza testa, in cerca di una pace interiore che non può essere trovata.

Perché la storia dei suoi personaggi, come spiega Golubović, è la storia di tutti noi che la guerra, coi suoi cerchi più o meno stretti, ha toccato per sempre: l’incomunicabilità di una tragedia tanto collettiva quanto assurdamente individuale ha innalzato muri ciechi, non solo tra gli stati nati dalle ceneri jugoslave, ma tra le persone, a prescindere da nazionalità e geografia. Questa alienazione permanente è resa perfettamente esplicita dai lunghi silenzi e dai primi piani, rigorosamente di spalle, che tallonano i protagonisti nel loro camminare senza meta: un inseguimento vicino e costante, che non serve a leggerne i pensieri, e quindi a condividerli. La gratuità di un gesto di pace si frantuma di fronte all’eternità della morte dei giusti, si gela di fronte alla cinica mancanza di pentimento degli assassini.

Credo che questo film possa essere apprezzato dal pubblico occidentale, come in fondo bene dimostrano i premi che ha già raccolto. Esso, però, può essere pienamente compreso solo dal suo pubblico, dalla sua gente. È finalmente un film jugoslavo per jugoslavi, che narra loro essi stessi, ponendogli la domanda più elusa: a cosa è servito versare tanto sangue?

 

Chi è Filip Stefanović

Filip Stefanović (1988) è un analista economico italiano, attualmente lavora come consulente all'OCSE di Parigi. Nato a Belgrado si è formato presso l’Università commerciale Luigi Bocconi di Milano e la Berlin School of Economics, specializzandosi in economia internazionale. Ha lavorato al centro di ricerche economiche Nomisma di Bologna e come research analyst presso il centro per gli studi industriali CSIL di Milano. Per East Journal scrive di economia e politica dei Balcani occidentali.

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