Si è aperto la settimana scorsa a Vezprem, in Ungheria, il processo per valutare la responsabilità di 15 dirigenti della MAL (Magyar Alluminium Production and Trade Company), l’azienda che nel 2010 è stata protagonista del più grosso disastro ambientale del paese e che a tutt’oggi è autorizzata a produrre. Al banco degli imputati anche il managing director Zoltan Bakonyi.
Il fatto
Dalla catastrofe dei fanghi rossi di Ajka, in Ungheria occidentale, sono trascorsi quasi due anni. Erano le 12.25 del 4 ottobre 2010 quando, dal deposito dello scarto della produzione di allumina, una sorta di grande piscina interrata, è fuoriuscito oltre 1 milione di metri cubi di fango rosso tossico che ha provocato la morte di 10 persone e oltre 115 feriti, invaso due villaggi e compromesso le coltivazioni locali per anni, oltre a sterminare la fauna e la flora dei corsi d’acqua coinvolti. L’onda di materiale liquido, alta 1-2 metri, ha lasciato evidenti tracce sulle case dei due paesi evaquati, Devecsér e Kolontár, ridotti in condizioni impressionanti, con gli edifici inutilizzabili e il terreno del tutto ricoperto dalla fanghiglia. Il governo ha dovuto provvedere alla ricostruzione dei centri abitati, offrendo agli sfollati sistemazioni provvisorie o una nuova dimora in località alternative. All’epoca dell’incidente la produzione è rimasta bloccata per alcuni giorni e è ripresa regolarmente il 17 ottobre.
Due anni dopo, il processo riprende
L’accusa è per negligenza, violazione delle norme di gestione dei rifiuti e danni all’ambiente e alle persone. La fabbrica di Ajka è stata multata nel 2011 dalle autorità regionali per oltre 470 milioni di euro: parliamo di 135 miliardi di fiorini ungheresi a carico di una compagnia che nello stesso anno ne ha fatturati 32,7 miliardi e che oggi rischia la bancarotta anche a causa degli arretrati da versare ai fornitori, tra cui la centrale energetica Bakonyi Erőmű. Secondo i dirigenti solo con un piano di riorganizzazione sarà possibile tenere in vita la MAL. Il governo magiaro l’ha inserita tra le aziende “dalla straordinaria importanza strategica“, un passaggio di categoria che, già pubblicato in gazzetta ufficiale tramite un decreto apposito, potrebbe servire a ottenere un trattamento speciale. In Ungheria le aziende “dalla straordinaria importanza strategica” godono, infatti, di procedure di liquidazione diverse, volte a preservare almeno parte dei posti di lavoro che andrebbero perduti.
Una realtà industriale sospetta
Verrà mai fatta luce per davvero sull’accaduto? Intorno alla MAL da anni girano voci poco chiare: già prima del fatto si parlava di un coinvolgimento dell’ex primo ministro Ferenc Gyurcsány nelle questioni economiche della ditta – un suo socio in affari era tra gli azionisti della MAL – mentre i dubbi su come mai il deposito abbia passato tutti i controlli di sicurezza fino all’ultimo, hanno riguardato tanto i socialisti del precedente esecutivo quanto i conservatori dell’attuale governo. Ha fatto mal pensare anche l’atto del 2004 con cui l’Ungheria ha cambiato, eliminando il termine “pericolosi”, la denominazione di rifiuti come il fango rosso (qui un breve approfondimento sullo scarto della produzione di allumina tramite Bayer Process). In questo modo la MAL, che non disponeva della licenza per il deposito di rifiuti pericolosi, ha potuto regolarmente stoccare il residuo dell’allumina. L’ispettorato per la protezione ambientale e la gestione delle acque del Transdanubio centrale (CTENPWM) ha appoggiato la classificazione di questo materiale come rifiuto “non hazardous”, diminuendo così la severità dei requisiti di stoccaggio e il monitoraggio.
La gestione del disastro
Stando al rapporto redatto dal partito dei verdi LMP nel marzo del 2011 (il Kolontár Report), il piano di gestione del disastro deciso dalla MAL sarebbe opinabile e nei mesi seguenti alla contaminazione non sarebbero state prese le misure opportune. Guardando alle responsabilità dell’accaduto, lo stesso documento sottolinea come, nonostante i depositi di rifiuto industriale fossero competenza della Supervisione Miniere, quest’ultima non abbia verificato la conformità tecnologica del sito di smaltimento e non abbia imposto l’uso di una tecnologia più avanzata, suggerendo una conversione alla tecnologia a secco. Il corposo documento dell’LMP punta l’attenzione anche su un altro aspetto contestato: la decisione dell’amministrazione ungherese di costruire un argine in seguito all’incidente, per prevenire ulteriori fuoriuscite.
I lavori furono avviati a pochi giorni dall’esondazione, con un investimento da diversi miliardi di fiorini la cui utilità non sarebbe stata dimostrata con chiarezza. Infine, il Kolontár Report suggerisce la creazione di un fondo europeo per affrontare i casi di questo tipo e sottolinea la necessità di un controllo prolungato dell’area di 1000 ettari interessata dalla fuoriuscita e sullo stato di salute dei suoi abitanti. Da parte della MAL, i provvedimenti presi per il controllo del deposito a cielo aperto hanno incluso l’aggiunta di gesso per solidificare il liquido rosso e renderlo trasportabile con i camion, dopo apposite procedure. Una tecnologia mai usata prima e che impiega il gesso, materiale in grado di modificare la composizione chimica del fango rosso. (Proprio il gesso, infatti, è stato riversato sui terreni contaminati per neutralizzarne l’alcalinità, nei giorni successivi al disastro).
La questione dei fanghi rossi è di vitale importanza anche in Italia in relazione al bacino dell’Eurallumina di Portovesme in Sardegna, fabbrica chiusa nel 2009 i cui depositi di stoccaggio sono stati posti sotto sequestro e di cui quasi nessuno ormai parla più.
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