Immaginate di svegliarvi un lunedì mattina, aspettare il gorgoglìo della caffettiera aprendo una busta trovata nella cassetta della posta e scoprire in poche righe di dovere allo Stato 50.000 euro. E sulla vostra dichiarazione dei redditi annua svetta la modesta cifra di 10.000. Ora dovreste avere più o meno presente la sensazione di gelo che devono aver provato diverse migliaia di turchi in un triste giorno del 1942.
La cosiddetta “Tassa sulla ricchezza” (Varlık Vergisi) fu uno dei frutti del germe nazista, che attecchì senza troppa difficoltà all’interno della giovane Repubblica Turca, annaffiato com’era da abbondante nazionalismo e smània di turchizzazione. Alla morte di Atatürk nel ‘38, il potere di İsmet İnönü si affermò proclamando la propria personale interpretazione di rivoluzione kemalista. Culto della personalità e autoritarismo non temevano il confronto con i più celebri esempi di Italia e Germania. Anche il carattere razziale dei provvedimenti non tardò a presentarsi.
La tassa adottata dal parlamento turco non era ufficialmente destinata a una particolare categoria di contribuenti, essendo finalizzata a sanzionare l’arricchimento illecito in genere, ma la sua applicazione di fatto colpì duramente le minoranze non musulmane, in particolare i cittadini armeni, greci ed ebrei. L’importo della tassa era volutamente spropositato, mediamente cinque volte superiore al proprio reddito annuo, così nessuno riuscì ad adempiere al pagamento. Tra le 1.400 (fonti ufficiali) e le 8.000 (secondo le stime dei prigionieri) persone furono trasportate in massa in un campo di lavoro sito ad Aşkale, nella provincia di Erzorum. I dati parlano di venticinque persone che vi persero la vita, mentre tutte le altre trascorsero due lunghi anni in condizioni disumane, per fare ritorno a casa solo nel 1944.
Pochi ricordi e un uomo d’affari
Le vicende legate alla tassa sulla ricchezza non hanno grande risonanza nella storia e nella memoria turca e il capitolo di Aşkale si è concluso senza un vero epilogo, ma di certo si è prontamente girato pagina. Testimonianza di un rapporto a dir poco difficile tra lo Stato turco e le minoranze. Il problema, che ci ricorda un’eredità lasciata dalle millet ottomane, risiede nella concezione di laicità, principio tanto caro alla Turchia sin dalla sua nascita. Nell’accezione kemalista, incisa nel dna dello Stato e valida tutt’ora, con laicità si sottintende: essere turchi e musulmani sunniti. Le due caratteristiche appaiono inscindibili e per questo è difficile concedere la piena “turchità” a chi musulmano sunnita non è.
İshak Alaton si ricorda molto bene la mattina in cui, nel portare il pasto a suo padre nel campo provvisorio installato al Parco Gülhane di Istanbul, non lo trovò nella tenda. Tutti coloro che, pur vendendo tutti i beni e la casa, non erano riusciti a raggiungere la cifra da pagare al fisco, erano in partenza dalla stazione Haydarpaşa verso est, in direzione sconosciuta. Solo più tardi le famiglie seppero che i loro cari erano trattenuti per eseguire lavori di forza nel campo di lavoro improvvisato nell’anonima cittadina di Aşkale. Il padre, Hayim Alaton, che era uno dei commercianti emergenti dell’epoca ad Istanbul, nonché membro del partito repubblicano (CHP) al governo, fece ritorno nella propria casa due anni dopo, con i capelli precocemente imbiancati e tre giorni di viaggio alle spalle. Con questi ricordi riflessi negli occhi, İshak Alaton, che è un importante uomo d’affari a capo della Holding Alarko, ricorda costantemente al partito attualmente all’opposizione, il CHP, che ritornare sul passato per ammettere i propri errori e ridare dignità e visibilità alle persone che furono colpite dalle misure razziali in versione turca è un passo necessario per il processo di democratizzazione in atto.
A parte le parole di monito del noto imprenditore, nella letteratura e nel cinema, qualche isolato tentativo di ricordare la vicenda c’è stato: dal popolare romanzo di Yilmaz Karakoyunlu, nel 1999 è stato tratto il film “La collana della signora Salkim”, che fa riferimento anche alla vicenda personale di Alaton. Con il documentario storico “The Exiled-Erzurum/Askale”, presentato nel 2010 all’International Short Film Festival in Drama, il regista Kalliopi Legaki ha cercato di ricostruito i fatti della vicenda e accendere una piccola luce su una ferita ancora aperta.
Nonostante i tentativi, concreti o fasulli, della politica turca di avvicinarsi all’ideale europeo di società democratica e multiculturale, in cui il filo continuo tra la storia e il presente conduca senza nodi irrisolti ad una effettiva cittadinanza turca per tutti, la tendenza che ancora si osserva è quella di marginalizzare le tensioni in nome di un nazionalismo latente, siano esse ricordi storici o episodi più che mai attuali.