Il dibattito sulla Convenzione di Istanbul ha spaccato la maggioranza. La società si è opposta al Parlamento e ha risposto con la protesta più partecipata degli ultimi 15 anni. L’hanno avuta vinta.
La Lettonia ha riaperto il dibattito sulla Convenzione di Istanbul
Mercoledì 5 novembre la Saeima, il parlamento lettone, ha votato per posporre la questione del ritiro del Paese dalla Convenzione di Istanbul alla prossima legislatura. Giovedì 23 ottobre la Saeima, con una maggioranza risicata, aveva inizialmente appoggiato la proposta; un lungo dibattito aveva portato 52 deputati, principalmente dei partiti di opposizione, a votare a favore del ritiro. La mobilitazione della società civile e un suggerimento da parte del Presidente Rinkēvičs hanno fatto invertire la rotta.
Il tema aveva già attirato l’attenzione non solo dei politici, ma anche dell’opinione pubblica prima nel 2016, quando la Convenzione fu firmata, e poi nel 2023 quando fu ratificata. I sette anni tra la firma e la ratifica sono la dimostrazione della difficoltà con cui l’argomento è stato affrontato.
Se il Presidente avesse firmato il disegno di legge, la Lettonia sarebbe diventata il primo stato membro dell’Unione Europea a revocare la partecipazione alla Convenzione e sarebbe stata seconda al mondo solo alla Turchia. A nemmeno due anni dalla ratifica, in Lettonia il tema ritorna a scaldare l’aula della Saeima, e le strade.
Forze politiche in campo: la questione spacca la coalizione di governo
Facciamo un passo indietro. A meno di due anni dalla ratifica della Convenzione di Istanbul, il partito populista Prima la Lettonia (LPV), ha riportato la questione sul tavolo. La Commissione Affari Esteri ha presentato il disegno di legge alla Saeima decidendo di trattarla con procedura d’urgenza e prevedendo che venisse esaminata in due letture complessive. Il 23 ottobre la proposta è stata discussa in Parlamento e sostenuta dai deputati delle forze di opposizione, insieme al partito della coalizione di governo Unione dei verdi e dei contadini (ZZS). Il resto della maggioranza e alcuni indipendenti si sono invece astenuti. Nella successiva votazione del 30 ottobre, le stesse formazioni hanno approvato il disegno di legge che prevedeva il ritiro dalla Convenzione.
Tuttavia, una volta arrivato sul tavolo del Presidente Rinkēvičs, il disegno di legge è stato rimandato al parlamento con il suggerimento di accantonare la questione e lasciarla in mano alla prossima Saeima, che entrerà in carica il prossimo autunno.
La proposta ha quindi messo in luce una spaccatura interna alla coalizione di governo: la coesione è venuta meno quando i deputati di ZZS si sono astenuti nell’ultima votazione, quella in cui si doveva decidere se accogliere la proposta del Presidente oppure procedere con la promulgazione. Il ripensamento di Lista unita (AS) e Alleanza nazionale (NA), che alla fine hanno votato a favore della proposta di Rinkēvičs, ha inoltre diviso l’opposizione, fino ad allora compatta nel sostegno al ritiro.
Una battaglia culturale più che giuridica
I partiti favorevoli al recesso hanno motivato la loro posizione con argomenti ideologici, celati dietro presunti impedimenti giuridici secondo cui la Convenzione violerebbe la Costituzione lettone. Il nodo principale riguarda l’articolo 4, che introduce il concetto di “genere sociale” (social gender), inteso come ruolo socialmente costruito di donne e uomini. I sostenitori del ritiro ritengono che tale concetto metta a rischio il valore della famiglia tradizionale tutelato dalla Costituzione. Proprio questo termine aveva già ritardato la ratifica del trattato: il Parlamento l’aveva infatti accompagnata ad un documento che ne limitava l’applicazione ai principi della Carta fondamentale. Le critiche ideologiche si estendono anche all’articolo 14, che invita gli Stati a promuovere nei programmi scolastici la parità di genere, il rispetto reciproco e la lotta agli stereotipi. Sembrerebbe che includere tali temi nell’educazione giovanile non sia accettabile dai sostenitori del ritiro.
L’opposizione sostiene che la violenza sulle donne e la violenza domestica debbano essere affrontate rafforzando la legislazione interna, senza ricorrere a strumenti internazionali. Un fatto tanto interessante quanto spaventoso, se si considera che l’attuale Parlamento lettone conta il più alto numero di donne nella sua storia: eppure, tra le voci contrarie figurano proprio parlamentari donne, come Svetlana Čulkova (S!), Linda Liepiņa (LPV), Aiva Vīksna (AS).
In alternativa alla Convenzione, i partiti favorevoli all’uscita propongono la dichiarazione “Sulla prevenzione e l’eliminazione della violenza contro le donne e della violenza domestica,” un documento interno redatto dall’opposizione e da ZZS che, secondo i promotori, non lascerebbe spazio a interpretazioni ideologiche.
La piazza risponde alla Saeima
La proposta di ritirare la Lettonia dalla Convenzione di Istanbul ha scatenato una forte mobilitazione della società civile. Il primo picchetto si è tenuto il 2 ottobre davanti alla Saeima, con alcune centinaia di persone radunate per protestare contro il piano di recesso. La seconda manifestazione, il 29 ottobre, ha invece portato davanti al Parlamento almeno 5.000 persone: le strade della città vecchia di Riga erano già affollate ben prima dell’inizio previsto.
Tamburi, canti, applausi e slogan hanno riempito le vie del centro. Tra la folla, composta in gran parte da giovani, qualcuno ha paragonato i canti popolari intonati durante la manifestazione a quelli delle rivoluzioni cantate, simbolo del risveglio nazionale lettone negli ultimi anni dell’occupazione sovietica. Tra i cartelloni più fotografati, uno raffigurava l’ex presidente Vaira Vīķe-Freiberga e la scritta: “Avete fatto arrabbiare Vaira.” L’ex capo di Stato, molto stimata in Lettonia, aveva infatti definito “putiniani” i deputati favorevoli al ritiro, suscitando reazioni contrastanti sui social, dove alcuni l’hanno accusata di populismo o di ingerirsi nella politica interna, ricordando i suoi anni trascorsi in Canada.
Poichè la proposta è stata sostenuta anche da partiti rappresentativi dell’elettorato russofono, molti slogan hanno preso esplicitamente le distanze da Mosca: “La Lettonia non è la Russia”, “L’Europa è inorridita, la Russia ne è felice.” In un paese dove la presenza di una numerosa minoranza russofona e la vicinanza geografica rendono il tema particolarmente sensibile, il riferimento è tutt’altro che casuale.
Durante la protesta è intervenuta anche la premier Evika Siliņa, che ha invitato il popolo “a continuare a farsi sentire.” Oltre alle proteste, almeno 60.000 persone hanno firmato l’iniziativa per chiedere al Presidente di non firmare la legge.
Nonostante il 5 novembre la Saeima avesse accolto il consiglio del Capo di Stato, la manifestazione indetta per il giorno seguente si è tenuta ugualmente, radunando circa 10.000 persone – una mobilitazione civile che in Lettonia non si vedeva da quindici anni.
Stupore e paura a livello internazionale
La proposta ha stupito anche i partner europei. Alla presidente della Saeima, Mieriņa, è arrivato dai parlamenti dei paesi nordici un appello congiunto a ripensare l’uscita dalla Convenzione, temendo un allontanamento del paese dai valori europei. Una lettera simile è arrivata anche dai rappresentanti di numerose ambasciate a Riga. Se il parlamento lettone avesse ritirato il Paese da una convenzione internazionale sui diritti umani, avrebbe dato l’impressione che i trattati internazionali fossero secondari rispetto alle leggi nazionali, riducendo il peso della comunità internazionale.
Anche il presidente dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, Theodor Roussopoulos ha espresso senza mezzi termini il suo stupore verso la proposta del parlamento lettone e si è detto “profondamente allarmato” dalla decisione, che diffonderebbe il pericoloso messaggio che “la sicurezza e la dignità delle donne possa essere messa in discussione o negoziata.” Riemerge inoltre la disinformazione che da tempo circonda la Convenzione, spesso rappresentata come uno strumento ideologico piuttosto che come un meccanismo di cooperazione internazionale e tutela dei diritti umani, come ha ricordato Inga Reine, giudice della Corte di giustizia dell’Unione Europea.
—
Foto: Amnesty International
East Journal Quotidiano di politica internazionale