Recensione del libro di Simone Malavolti riguardo i nazionalismi e la pulizia etnica messa in atto a Prijedor tra il 1992 ed il 1995
«Questo non è un libro sulle memorie collettive, ma di storia. E questa è una storia di violenza. Lo strumento che l’SDS sceglie per fondare il suo Stato-nazione».
L’intento storiografico del libro di Simone Malavolti “Nazionalismi e “pulizia etnica” in Bosnia-Erzegovina – Prijedor (1990-1995)”, edito da Pacini Editore, è evidente fin dalle prime righe. La città di Prijedor, nel nord-ovest della Bosnia Erzegovina, è tristemente celebre per i campi di concentramento di Omarska, Keraterm e Trnopolje da cui sono passate migliaia di persone, e diventa il “centro gravitazionale” a cui ruota attorno l’intero impianto narrativo. É presente una ampia parte storica, completata con puntuali analisi e dati statistici. In conclusione al testo sono presenti anche varie mappe e tabelle che rendono ancor più chiara e leggibile la situazione.
L’autore, i media e la JNA
Simone Malavolti, nato a Firenze nel 1976, è uno storico specializzato nei paesi jugoslavi e dei Balcani occidentali nell’età contemporanea. Ha conseguito un primo dottorato di ricerca all’Università di Perugia e un secondo a Firenze. Da anni collabora con l’Associazione Trentino con i Balcani (ATB) e con l’Osservatorio Balcani e Caucaso. È inoltre presidente del Balkan Florence Express, una rassegna di cinema dai Balcani occidentali. Oltre a numerose pubblicazioni Malavolti ha lavorato anche ad alcuni progetti video tra cui, nel 2014, il film documentario Col nome del delirio sul manicomio di Firenze, realizzato con Bianca Pananti e Leonardo Filastò.
Il percorso storiografico parte dall’evangelizzazione della regione, avvenuta tra il IX e X secolo, si sofferma sulla dominazione ottomana e austro-ungarica e poi soprattutto sui tragici avvenimenti del Novecento: la seconda guerra mondiale, la celebre battaglia del Kozara del 1942 e le feroci campagne persecutorie messe in atto dagli ustascia di Ante Pavelic. L’operato deli filo-nazisti croati, in particolare ai danni della popolazione serba, si è rivelato poi centrale esattamente quarant’anni dopo, quando la leadership nazionalista serbo-bosniaco che guida il Partito Democratico Serbo (SDS) ha dovuto “costruire” il nuovo conflitto. Le prime elezioni multipartitiche del 1990 e i censimenti fatti negli stessi anni per “contare” le varie etnie sono illustrate sia a livello nazionale che locale tramite nomi, dati e relative spiegazioni.
Il focus dell’intero saggio è sul conflitto esploso nella ex Jugoslavia tra il 1991 e il 1995, ma, più in generale, sono analizzate le modalità con cui si sviluppa la violenza, anche la più efferata, e in particolare quella di matrice etnica. La costruzione del conflitto da parte dell’élite politica serba passa inevitabilmente anche dall’utilizzo dei media locali. Su Prijedor l’autore analizza KV e «Radio Prijedor» i quali diventarono ben presto voce pubblica del nuovo regime, «Zoran Baroš, uno dei giornalisti, avrebbe ricordato anni dopo, ignaro di essere registrato: “ricevevamo ordini, pressioni. […] Quando ci davano i comunicati stampa nessuno ci chiedeva il parere… significava semplicemente che doveva essere pubblicato”.». Interessante poi l’approfondita analisi che l’autore fa della trasformazione avvenuta all’ interno dell’esercito federale jugoslavo (Jugoslovenska narodna armija, JNA). Una “serbizzazione” di un esercito prima di natura federale e poi diventato a grande maggioranza serba. Tale processo spiega anche il motivo per cui tra i serbi le vittime militari siano state 20.775 (83,26%) mentre per esempio tra i bosgnacchi, 8.000.
La violenza etnica e il caso di Prijedor
Per quanto riguarda lo sviluppo della violenza etnica l’ultimo capitolo è esplicativo. Partendo dai numeri, forniti da tre fonti principali, viene esposta la questione della violenza di massa e sono poste alcune domande riguardo gli autori dei crimini, su chi e come le organizza e su quale è il sistema gerarchico dietro a tali atti. Tra le categorie di violenze di massa sono analizzate le violenze fisiche, quelle indirette e psicologiche, le violenze “occasionali”, le crudeltà “inutili” e gli stupri. Un paragrafo è poi dedicato all’ “elitocidio”, ovvero l’eliminazione mirata di personaggi in vista, politici, intellettuali, ma anche medici, dirigenti e giudici. Le vittime sono selezionate per il loro ruolo all’interno della società, perché questo è considerato una potenziale minacce alla stabilità e alla legittimità del nuovo stato “serbo”.
Concentrandosi su Prijedor, Malavolti pone la questione del perché proprio in questa città si arrivi ad una pulizia etnica così violenta e profonda e che ha prodotto la quasi totale scomparsa di una parte della comunità cittadina. Tra le cause individuate, la sua struttura di tipo bi-etnica, caratteristica comune con altre località dove si sono verificati i peggiori massacri. La violenza etnica nel conflitto bosniaco, e in particolare a Prijedor, diventa un elemento essenziale per trasformare quelli che erano vicini di casa in nemici: “demolire la concreta quotidiana esperienza di convivenza”.
Come sottolineato da Michele Nardelli nella prefazione al testo, la “guerra dei dieci anni” è stata troppo spesso catalogata con schemi che non ne coglievano la modernità e la complessità. Sebbene molto si stato scritto sulla dissoluzione della Jugoslavia, il lavoro di Malavolti “ci aiuta a comprendere come la violenza sia un gorgo che ti trascina dove mai potresti immaginare”.
Foto: Pacini Editore