Zelens'kyj deve dimettersi

L’OPINIONE: Zelens’kyj deve dimettersi

Lo scontro tra il presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj e quello statunitense Donald Trump ha mostrato chiaro e tondo al mondo intero che Stati Uniti e Ucraina non sono più alleati, e c’è da chiedersi se lo sono mai stati oppure – come scritto altrove – il fine ultimo della Casa Bianca non sia sempre stato questo: usare l’Ucraina come un proxy, e poi mollarla al suo destino. In ogni caso, la dura discussione che ha coinvolto i due presidenti segna il punto più basso delle relazioni tra Kiev e Washington. E pensare che l’incontro avrebbe dovuto portare alla firma dell’accordo per cedere agli Stati Uniti parte degli introiti derivanti dalle risorse minerarie ucraine. Un accordo capestro, che rivela senza infingimenti l’opportunismo americano, ma che – nelle intenzioni di Zelens’kyj – avrebbe dovuto accompagnarsi a qualche garanzia di sicurezza per l’Ucraina. Dopo la discussione davanti alle telecamere, il presidente ucraino se n’è andato e la firma dell’accordo è saltata. Trump ha poi pubblicato un post in cui ha scritto di aver capito che Zelens’kyj non sarebbe “pronto per la pace” e che il presidente ucraino ha “mancato di rispetto agli Stati Uniti” e “potrà tornare quando sarà pronto per la pace”. In poche parole, torna quando sarai pronto a fare quel che diciamo noi.

Un’imboscata

L’incontro era un’evidente imboscata ai danni di Zelens’kyj, voluta e programmata fin dall’inizio, fin da quando Trump lo aveva sminuito facendosi beffe dell’abbigliamento informale con cui il presidente ucraino si è presentato alla Casa Bianca, dicendo: «È vestito di tutto punto oggi» con il vicepresidente Vance che rideva. Poi lo hanno fatto sedere a favore di telecamere: solo, circondato da americani, costretto ad esprimersi in un inglese grottesco, senza traduttore, senza protocollo, senza dignità. Il seguito è stato anche peggio, con Vance che lo accusava di non aver “detto grazie” all’America per l’aiuto fornito e di “non essere rispettoso”. Un gioco al massacro cui Zelens’kyj non ha potuto né saputo sottrarsi, e che forse non aveva saputo prevedere. Ma cosa attendersi da uno che la settimana prima ti ha chiamatodittatore“?

Il mito caduto

L’umiliazione pubblica di Zelens’kyj, chiaramente predisposta, è stata un sacrificio rituale: la  teatrale caduta dell’idolo, prima esaltato, poi rivelato come indegno ed umiliato, per superare la sconfitta, per esorcizzare la fine. L’uomo che fino a un anno fa qualcuno (spropositatamente) paragonava a Churchill, oggi è stato massacrato in diretta mondiale facendo la figura del nano politico. Se ad altri leader europei, come Macron e Starmer, che in questi giorni hanno incontrato Trump, è stato possibile battibeccare con il presidente americano, uscendone persino rafforzati nella loro immagine pubblica, la stessa cosa non è accaduta con Zelens’kyj – schiacciato dal peso della sua stessa inettitudine.

Il conflitto aveva trasformato Zelens’kyj in un’icona, ed egli stesso aveva saputo lavorare sapientemente sul proprio personaggio, interpretando il ruolo che gli ucraini avevano bisogno di vedere rappresentato sul palcoscenico della guerra, guadagnandosi il rispetto internazionale ma soprattutto quello del suo popolo. Malgrado le bombe cadessero sulle città e Kiev venisse assediata, Zelens’kyj è rimasto al proprio posto diventando simbolo della resistenza ucraina. Adesso quel mito non serve più, ed è stato abbattuto.

Non è più tempo per Zelens’kyj

Washington e Mosca – attraverso un negoziato diretto – stanno cercando di avviare un percorso di pace che potrebbe costare all’Ucraina dolorose mutilazioni territoriali. Nessuna delle due parti sembra intenzionata a coinvolgere Kiev nelle trattative. Soprattutto, né Trump né Putin riconoscono in Zelens’kyj un interlocutore. Lo stesso presidente ucraino ha mostrato di non aver capito che il paradigma è cambiato. Parlare con Trump come era abituato a parlare con Biden e con i leader europei, non funziona più. Il messaggio di Trump è stato chiaro: la guerra non si può vincere e devi fare i conti con la realtà, dovrai negoziare con Putin e non potrai più dargli del terrorista e del criminale. Un messaggio durissimo, da cui emerge chiaramente che il destino dell’Ucraina non si deciderà a Kiev. Piaccia o non piaccia.

Se gli ucraini vogliono evitare il peggio, occorre un leader che possa essere ascoltato, che le due potenze riconoscano come interlocutore, al fine di salvare il salvabile. Quali saranno gli scenari della pacificazione è presto per dirlo, ma non si deve incorrere in incauti ottimismi: i russi non se ne andranno, i territori conquistati sono dati per acquisiti e non saranno oggetto di trattativa, il Cremlino potrebbe persino avanzare pretese su Kharkiv o su Odessa. Come potrebbe un presidente schernito in mondovisione, sbeffeggiato e insultato dal suo stesso alleato, farsi carico di un tale compito?

Ecco perché Volodymyr Zelens’kyj dovrebbe dimettersi nella speranza che questo offra una chance all’Ucraina. Tuttavia, è assai probabile che questo non avvenga, anche perché Zelens’kyj gode ancora di un solido consenso interno. Un consenso che, se necessario, potrebbe venire eroso e la sua immagine infangata con qualche scandalo debitamente confezionato. C’è da credere che presto cominceranno a uscire indiscrezioni sul livello di corruzione all’interno della squadra di governo, coinvolgendo l’amministrazione presidenziale più o meno direttamente. La distruzione dell’immagine pubblica di Zelens’kyj – all’estero e in patria – sarà allora completa. E cosa ci avrà guadagnato l’Ucraina?

Per non perdere tutto

Il mandato di Zelens’kyj è scaduto a maggio dello scorso anno. La costituzione ucraina impedisce lo svolgimento delle elezioni durante la legge marziale. Elezioni che sarebbero comunque impossibili al momento, per ragioni di ordine logistico e giuridico, prima tra tutte la questione del voto nelle regioni occupate. Senza una tregua è impossibile andare al voto. La base negoziale elaborata da Putin e Trump prevede sostanzialmente tre passaggi. il cessate-il-fuoco, le elezioni e i successivi accordi di pace (e possibile spartizione territoriale). Ma per un cessate-il-fuoco ci va il consenso di Zelens’kyj, il quale prima vuole quelle garanzie di sicurezza che Washington non intende offrire. La situazione è quindi bloccata. Probabilmente, Zelens’kyj spera in un intervento europeo ma difficilmente i leader europei potranno fare qualcosa di concreto a favore dell’Ucraina.

Le sue dimissioni potrebbero però sbloccare lo stallo politico, aprendo a un governo ad interim che conduca il Paese verso una soluzione negoziata che eviti all’Ucraina di perdere tutto: non solo i territori occupati ma anche la democrazia e la stessa indipendenza. Zelens’kyj è stato il presidente della guerra, non può essere quello della pace. Una sua uscita di scena appare necessaria. Washington e Mosca hanno entrambe raggiunto parte dei propri obiettivi e possono chiudere la partita. Una partita giocata sulla testa degli ucraini. Zelens’kyj può forse ottenere i tempi supplementari, ma non può cambiare il risultato.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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