Non è l’Iraq, la guerra in Ucraina e la cattiva coscienza dell’Occidente

La guerra in Ucraina è come quella in Iraq? Esiste una “guerra giusta”? L’Occidente sbaglia a sostenere Kiev? Per rispondere occorre collocare questo conflitto nel suo contesto…

 

Troppe volte abbiamo sentito parlare di “guerra giusta”, invocata per giustificare, affrettatamente, aggressioni per nulla necessarie. E troppo spesso  “guerra giusta” è diventata la parola d’ordine per correre a sirene spiegate verso il conflitto armato, senza che fossero tentate tutte le vie per salvare la pace. Il concetto di “guerra giusta” è antico, e risale al Medioevo, quando la cristianità latina si chiedeva quali fossero i limiti dell’agire militare. Oggi il concetto è molto più elastico: guerra al terrorismo,  guerra preventiva, guerra per la democrazia e intervento umanitario, sono tra i termini più utilizzati per edulcorare o mistificare quello che sovente è solo un’aggressione militare. Ma l’affermazione di “valori giusti” – libertà, democrazia – sposta il discorso bellico sul piano morale, che è per definizione soggettivo. A questo punto si pone il dilemma se esista davvero un giusto universale.

Il pacifismo giustamente insiste su queste ambiguità, ponendo il problema della mancanza di uno jus contra bellum, di un diritto internazionale che vieti la guerra e abbia gli strumenti per impedirlo. L’art. 2 della Carta delle Nazioni Unite in verità dice chiaramente che “i membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o uso della forza, sia contro l’integrità territoriale, sia contro l’indipendenza politica di qualsiasi Stato”. Ma che fare quando questi precetti vengono scavalcati? La Russia ha aggredito l’Ucraina, come in passato gli Stati Uniti hanno fatto con l’Iraq durante la Seconda guerra del Golfo. In entrambi i casi, l’ONU è stato ridotto a un ruolo ancillare, e la forza del diritto ha dovuto soccombere di fronte a quella delle armi. Tuttavia, ogni guerra agisce in un determinato contesto, ha cause proprie e proprie motivazioni.

Non è l’Iraq

Anzitutto occorre osservare la cornice entro cui questa guerra si sviluppa: la Russia si è presa manu militari porzioni di territorio di un altro stato sovrano e, con questa guerra, intende allargare i propri possedimenti, oltre la Crimea e il Donbass, anche Zaporizzja e Kherson. e chissà cos’altro. Si tratta di una situazione molto diversa dalle precedenti guerre di aggressione della NATO dove, al cambio di regime, non è seguita l’annessione di territori da parte americana o di suoi alleati. Anzi, eventuali linee di autonomia e indipendenza si sono tracciate seguendo i confini di preesistenti soggetti federali. E questo perché l’inviolabilità delle frontiere è un caposaldo della sicurezza internazionale fin dalla Guerra Fredda. L’intervento russo viola le frontiere ucraine e accettare la legittimità di un gesto simile creerebbe un pericoloso precedente.

Anche per questo la guerra in Ucraina non è assimilabile a quelle condotte dalle forze NATO in Iraq o in Afghanistan, che pure avevano il loro carico di menzogne, propagande e bombardamenti su civili, esattamente come questa. Guerre condotte non certo per difendere o esportare la democrazia, ma per interesse, come per interesse si sostiene questa. Guerre che ci hanno insegnato a diffidare di noi stessi, delle nostre istituzioni politiche e militari, che ci hanno insegnato che “la democrazia non si esporta con le bombe”, che Washington gioca a fare la polizia internazionale, che le “prove” delle atrocità sono spesso false, che “intervento umanitario” è un modo pulito per dire “aggressione”. Lo abbiamo imparato. Abbiamo aperto gli occhi. Ma dobbiamo aprirli tutti e due gli occhi, e guardare a questo conflitto anche in un altro modo.

Convinti che l’Occidente sia una colpa inespiabile, in molti guardano alla guerra in Ucraina non già come il risultato del pluridecennale risveglio di un’ideologia imperiale russa, ma come l’esito dell’imperialismo americano, esattamente come in Iraq o in Afghanistan, dimenticando – o ignorando – la specificità dell’Europa centro-orientale.

La caduta del Muro ha avuto l’effetto di un sasso nello stagno, ha ricondotto popoli europei nell’alveo della comune storia e del comune divenire europeo, da cui erano stati forzosamente esclusi da cinquant’anni di cattività sovietica. Questo “ritorno” è stato più rapido a Varsavia, Praga o Riga; più complesso a Bucarest e Sofia; difficilissimo e incompiuto nei Balcani, con un crescente livello di difficoltà man mano che ci allontana dall’epicentro ideale, da Berlino. L’onda lunga della caduta del Muro è arrivata a Kiev nel 2004 con i fatti della Rivoluzione arancione, ma la popolazione aveva in larga misura già maturato una propria idea di “ritorno all’Europa” negli anni precedenti. Un “ritorno” certo non privo di contraddizioni, di profittatori politici, di oligarchi senza scrupoli, di interferenze estere. Ma un “ritorno” di cui oggi vediamo la forza. Non un risultato dell’espansionismo occidentale, ma di una rinnovata consapevolezza e volontà di essere europei da parte degli ucraini. Non è l’Occidente che è andato a Kiev. È Kiev che è tornata in Occidente. 

Invertire la rotta della storia

Tornata all’Occidente – frase che può apparire temeraria – di cui ha fatto parte almeno dal 1362, quando divenne una delle città più importanti del granducato lituano e, successivamente, della confederazione polacco-lituana, vasto stato multietnico e policentrico, ove l’identità rutena, che oggi chiamiamo ucraina, ha potuto svilupparsi diventando altro da quella moscovita, da cui venne assorbita solo dalla metà del XVII secolo.

Questo “ritorno” il Cremlino vuole impedire, cercando di invertire la rotta della storia per riaffermarsi potenza egemone nella regione. Niente di strano, ma ci sono tanti modi per acquisire influenza sul proprio estero vicino: la potenza culturale che passa da una lingua e da una tradizione artistica; l’uso politico della religione; la forza economica; un modello sociale di successo, il benessere e la libertà individuale; le istituzioni finanziarie; e, nel caso russo, le forniture energetiche. La Russia aveva tutto il potenziale per affermarsi anche nel mondo post-sovietico, ma non lo ha saputo fare. In quasi venticinque anni di putinismo, la regressione sociale, la perdita di libertà individuali e politiche, l’oppressione religiosa, la debolezza finanziaria e il mancato sviluppo di un’economia competitiva che non fosse dipendente dagli idrocarburi, hanno inchiodato la Russia al palo. Incapace di essere un modello per il proprio “estero vicino”, Mosca ha visto quei paesi allontanarsi cercando altrove garanzie, protezione e benessere. Non è l’Occidente che ha sottratto Kiev alla Russia, è la Russia che l’ha persa. 

Se non capiamo questo, allora continueremo a guardare alla guerra in corso come al risultato di una lotta tra potenze. La ragione, se qualcuno ce l’ha, non sta a Washington né a Mosca. Sta a Kiev. Gli ucraini non sono un soggetto passivo e manipolato del conflitto, ma i protagonisti della propria storia, di una storia che vogliono poter determinare. Con quali esiti, non sappiamo. Certo non tutto sarà bello e buono. Non lo è adesso, non lo sarà dopo la guerra. Non lo era prima, non lo sarebbe stato in ogni caso.

La cattiva coscienza dell’Occidente

La civiltà occidentale ha sicuramente enormi responsabilità storiche e morali, che non serve qui riassumere. La coscienza delle nostre colpe collettive ha mosso le nostre società verso una maggiore consapevolezza. Le guerre dell’ultimo secolo ci hanno insegnato molto. Tuttavia non dobbiamo essere ciechi. Il conflitto in Ucraina contiene tutta l’ipocrisia, l’ambizione, la volontà di potenza delle guerre precedenti ma si motiva soprattutto con lo sforzo di autodifesa di un popolo ingiustamente aggredito. Il sostegno dell’Occidente non è disinteressato, è ovvio. Ma è giusto. Non perché si difendano libertà e democrazia – in Ucraina non abbondavano – né perché, utilitaristicamente, possa indebolire un competitor come la Russia. Ma perché resistere è un diritto che nessuno può contestare.

Se la guerra non può essere giustificata sul piano morale, la resistenza invece lo è. Dovremmo mettere da parte la nostra cattiva coscienza e ricordare che da quell’identico sforzo di resistenza armata è sorta la nostra imperfetta, ma libera, società europea. Sostenere la resistenza ucraina, anche a costo di sporcarsi le mani, è giusto e morale anche se significa alimentare la guerra. Perché non farlo, cedendo al sopruso, alla prepotenza, alla legge del più forte, renderebbe la pace alleata dell’ingiustizia. E questo sì, sarebbe immorale.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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