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L’omicidio di Antonio Russo: quando l’Italia non era pronta a rompere con Mosca

L’omicidio di Antonio Russo, giornalista di Radio Radicale, non è mai stato risolto. Il podcast di Jacopo Ottenga ne ripercorre la storia

Il 16 ottobre 2000 alle 15.00, il cadavere di Antonio Russo, giornalista di Radio Radicale, viene ritrovato a 25 km da Tbilisi. La procura georgiana e quella romana avviano due inchieste parallele. Un artista olandese viene indagato per concorso in omicidio ma i sospetti non trovano riscontro. La ricerca della verità è ostacolata dai rapporti sempre più stretti tra Russia e Italia: le indagini, imprecise o viziose, non portano a nulla.

Le videocassette

Dopo il suo prezioso lavoro in Rwanda, Algeria, Bosnia e Kosovo, Antonio Russo si sposta in Georgia per seguire il secondo conflitto ceceno (i confini della Russia sono allora inattraversabili); qui, come riferito alla madre in una telefonata avvenuta una decina di giorni prima di morire, raccoglie ampia documentazione sui crimini compiuti dai russi sulla popolazione civile. Testimonianze racchiuse in sei videocassette e un cd-rom scomparsi assieme a lui dall’appartamento dove alloggiava nella notte tra il 14 e il 15. Russo sarebbe dovuto rientrare a Roma un paio di giorni dopo. Aveva ottenuto il materiale per tramite del suo principale riferimento in loco, Surho Idiev, responsabile dell’agenzia d’informazione cecena Kibe, al fine di divulgarlo sui media occidentali, alle istituzioni europee e all’Aia. Amici e collaboratori dei due, ascoltati dagli inquirenti, confermano quanto fosse compromettente.

Nel luglio 2001 David Minashvili, l’investigatore capo georgiano, comunica confidenzialmente ai colleghi della Digos di aver recuperato il materiale trafugato. Minashvili viene rimosso poco dopo, gli italiani seguono la pista quando ormai è troppo tardi e tutto finisce in una bolla di sapone. Ambiguità e inerzie investigative – teste mai interrogati, autopsie divergenti, elementi chiave d’indagine omessi, depistaggi – ben evidenziate nel podcast “La Congiura del silenzio”, che mostrano chiaramente come parte delle istituzioni georgiane e italiane non era disposta a compromettere le relazioni bilaterali con Mosca.
Le motivazioni dell’omicidio sono chiare. Russo, inoltre, aveva pubblicamente denunciato l’uso di armamenti proibiti.

Un’eredità troppo importante per essere dimenticata

Alzo lo sguardo per un momento e vedo che questo ultimo rastrellamento ha trasformato Pristina in una città deserta. Dalle colline vicine scendono migliaia di persone. Non hanno nulla. Solo qualche coperta e miseri bagagli nelle buste di plastica. Ci sono moltissimi bambini. Finalmente arriviamo nel piazzale vicino alla stazione. C’è poco cibo, viene distribuito tra i più piccoli e gli anziani. L’acqua è razionata. Restiamo lì, ammassati, per ore. I militari ci guardano. Qualcuno ci provoca: “Avete vinto un viaggio in treno gratis in cambio delle vostre case”, ci dicono. Nessuno reagisce.” (da “Ho visto l’orrore di Pristina” in laRepubblica.it)

Antonio Russo è stato l’unico giornalista occidentale a restare nel Kosovo bombardato per testimoniare sulla pulizia etnica che i serbi stavano attuando nei confronti degli albanesi. Per uscire dal paese, seguì un convoglio di profughi albanesi diretto verso la Macedonia. Durante il tragitto il treno si fermò. Raggiunse Skopje a piedi, facendo perdere le sue tracce per due giorni.

Le quattro puntate del podcast, finalista del Premio Morrione, si possono ascoltare qui o tramite l’app di RaiPlay Sound.

Foto: Svm-1977, Wikimedia Commons

Chi è Gianmarco Bucci

Nato nel 1997 a Pescara, vive a Firenze. Al momento svolge un dottorato in Scienze Politiche e Sociologia alla Scuola Normale Superiore di Pisa sulle coalizioni rosso-brune in Europa centro-orientale. Scrive su East Journal dal dicembre 2021.

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