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Una deportazione mascherata? Come i russi gestiscono i corridoi umanitari

I russi li chiamano “corridoi umanitari” ma sembrano più una deportazione. La destinazione è obbligatoria: tra le braccia del nemico…

Sono circa tre milioni le persone in fuga dalla guerra in Ucraina, di cui circa la metà ha trovato rifugio in Polonia mentre gli altri si dividono tra Moldavia, Ungheria, Slovacchia e Romania. Per loro, il viaggio disperato si è concluso in Europa. Non per tutti è così. Mariupol’, Sumy, Cherson e Kharkiv sono città assediate. Si esce solo se i russi lo consentono. Il Cremlino li chiama “corridoi umanitari” ma la destinazione è obbligatoria, si tratti di Rostov sul Don, Kursk o Gomel, per chi evacua il destino è finire nelle braccia del nemico, in Russia o Bielorussia.

Dopo giorni di criminale attesa, in cui l’esercito russo ha lanciato granate su chi fuggiva da Irpin o bombardato i profughi di Mariupol’, il Cremlino ha infine acconsentito alle popolazioni accerchiate di lasciare le città. Ma non c’è nulla di “umanitario” in questo. Si tratta piuttosto di pause tattiche, atte a riorganizzare l’assedio. Soprattutto, si tratta di un modo per svuotare le regioni conquistate dalla presenza ucraina.

L’incessante fuoco di artiglieria caduto su Mariupol’, le bombe su obiettivi civili, ospedali e teatri, sono la prova evidente che ai russi non interessa nulla della popolazione ucraina. La retorica dei “popoli fratelli” destinati a riunirsi sotto l’ala protettrice del Cremlino, si dimostra vuota e ipocrita. Costringere le persone evacuate a dirigersi verso la Russia, impedendo altre direttrici, non è un gesto di “solidarietà” verso i civili ma un cinico tentativo di passare da “liberatori” e “salvatori” di un popolo disprezzato e calpestato. C’è un sinistro collegamento tra questi “corridoi umanitari” e le politiche di migrazione forzata e deportazione che caratterizzarono l’epoca sovietica.

E infine c’è l’eliminazione fisica degli avversari politici locali. Il sindaco di Melitopol’, Ivan Fedorov, è sparito l’11 marzo scorso mentre quello di Dniprorudne, Yevheniy Matvieyev, è stato rapito il successivo 13 marzo. Rapimenti e sparizioni sono un copione già visto in Cecenia tra il 1999 e il 2009, quando la Russia putiniana si imbarcò in una guerra che doveva essere rapida e vittoriosa, e che è invece stata un decennale bagno di sangue costellato da crimini impronunciabili per i quali nessun tribunale internazionale ha mai reclamato giustizia. Lo fece, inascoltata, Anna Politkovskaja, per questo ammazzata una sera di ottobre del 2006.

Nei territori ucraini occupati dai russi è in corso una russificazione strisciante. Referendum truccati per “annettere” città e territori, popolazione locale invitata a cambiare in rubli il proprio denaro, promesse di sussidi in cambio dell’abbandono di città e paesi. È presto per chiamarla “pulizia etnica” ma comincia terribilmente a sembrarlo.

foto Anadolu Agency

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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