C’era una volta il Movimento dei Non Allineati

Il Maresciallo Tito accoglie il presidente ghanese Kwame Nkrumah

Questi giorni Belgrado ospita uno dei più grandi summit internazionali dell’anno. Più di 100 delegazioni da tutto il mondo e circa 40 ministri degli esteri si ritrovano nella capitale serba per un anniversario speciale: i 60 anni dalla prima conferenza del Movimento dei Non Allineati. Un movimento enorme, sia per dimensioni che per importanza storica, ma che col crollo del muro di Berlino e della divisione dell’Europa e del mondo in blocchi ha perso la sua ragion d’essere.

Genesi dei non allineati

Era il 1961, e “il socialismo era come l’universo, in espansione.” Il presidente jugoslavo Josip Broz Tito, il suo omologo indonesiano Sukarno, il premier indiano Jawaharlal Nehru e il leader della Repubblica Araba Unita (unione di Egitto e Siria) Gamal Abd el-Nasser portarono a compimento una piccola, grande rivoluzione per le relazioni internazionali dell’epoca. Svoltasi a Belgrado dall’1 al 6 settembre, la prima conferenza dei paesi non allineati fu un successo storico: 25 paesi (tra cui anche Cuba, Etiopia, Arabia Saudita, Libano e Cipro) avviarono ufficialmente i lavori di un movimento – il più numeroso in termini di stati partecipanti – che si propose come alternativa ai due blocchi, dando vita al cosiddetto “terzo mondo”.

I tre principi cardine del movimento erano pace, indipendenza ed equa collaborazione internazionale. Che per la geopolitica dell’epoca si traducevano in smilitarizzazione, decolonizzazione e autodeterminazione.

L’attività diplomatica che portò al summit di Belgrado era iniziata già nel 1955, con la Conferenza di Bandung, che riunì prevalentemente paesi asiatici – tra cui Iran, Iraq, Siria, Arabia Saudita, Giappone e Cina –, e venne successivamente sviluppata da Tito, Nehru e Nasser a Brioni, nel 1956, con una dichiarazione congiunta di 12 punti che delineò l’indirizzo politico e strategico del gruppo. Venne posto l’accento sulla necessità di trovare accordi di pace in Medio ed Estremo Oriente, di accogliere la Cina comunista nell’ONU e sulla guerra di liberazione in Algeria. Ma soprattutto sulla possibilità di superare la divisione ideologica della Guerra fredda. E in questo Tito ebbe un ruolo particolare, sia perché la Jugoslavia avviò una politica estera coerente a questi principi, collaborando e intessendo rapporti con entrambi i blocchi, sia perché Belgrado offrì il proprio supporto, non solo diplomatico, a molte delle cause proprie del movimento.

Erano gli anni più caldi della Guerra fredda. Un anno prima della Conferenza, l’aereo americano U-2 venne abbattuto dall’Unione sovietica, mentre nella primavera del ’61 ci fu l’invasione della Baia dei Porci a Cuba. Nel 1960, la maggior parte dei paesi africani aveva conquistato l’indipendenza dal dominio coloniale (con la Francia impegnata nella guerra d’Algeria fino al 1962), e l’Asia si trovava in un periodo di grande fermento dopo le guerre civili in Cina e Corea, e alla vigilia del conflitto sino-indiano. Nasser aveva da poco nazionalizzato il Canale di Suez, stravolgendo le logiche del commercio globale, e il leader sovietico Nikita Khrushchev si era ideologicamente scostato da Stalin, condannandone i crimini e riallacciando i rapporti con la Jugoslavia di Tito.

Quando nacque il Movimento dei Non Allineati, il mondo era sull’orlo di un nuovo conflitto che, in parte, fu sventato proprio grazie al ruolo del costituendo gruppo di paesi. Il carisma di Tito offrì un canale di dialogo indiretto tra le due superpotenze, così come un’ancora ideologica per decine di paesi di recente indipendenza o in lotta per l’autodeterminazione.

Cosa significò per Belgrado?

Il Movimento ebbe un impatto tangibile per Belgrado e per la Jugoslavia. I preparativi per la prima conferenza di Belgrado cambiarono significativamente il volto urbanistico e istituzionale della capitale jugoslava. Vennero costruite 40 nuove vie, a Terazije comparvero i primi cartelloni pubblicitari illuminati, furono rinnovati l’acquedotto e la rete fognaria, così come l’illuminazione delle strade. Anche il parlamento federale, che accolse le delegazioni e ospitò parte dei lavori, fu sottoposto a rinnovi. Alle porte della città, campeggiava la scritta in più lingue: “Tutte le persone del mondo vogliono la pace”. A Novi Beograd, all’incrocio tra la Sava e il Danubio sorse il “Parco dell’amicizia”, una distesa di prati e platani piantati dai capi di stato che parteciparono alla conferenza. E poi il gigantesco SIV, palazzo governativo che ospitava il Consiglio Federale Esecutivo della Jugoslavia, ultimato proprio in previsione del summit e tuttora custode di molti doni al governo jugoslavo e reperti da ogni parte del mondo. Infine, due obelischi, di cui uno ancora presente.

Ma il Movimento dei Non Allineati si riflesse anche nella quotidianità socioculturale di Belgrado e della Jugoslavia. Le università iniziarono programmi di scambio e viaggi studio intercontinentali. Gli atenei jugoslavi si internazionalizzarono e diversi studenti stranieri continuarono la propria vita in Jugoslavia anche dopo gli studi (tra i più noti Peter Bossman, medico di origine ghanese che dal 2010 al 2018 è stato sindaco di Pirano, in Slovenia).

La leadership del Movimento, inoltre, fu motivo d’orgoglio e di appartenenza ideologica transnazionale. Quando nel gennaio del ’61 fu assassinato Patrice Lumumba, uno dei principali esponenti del panafricanismo, a Belgrado scoppiarono violente proteste che culminarono con l’occupazione e il saccheggio dell’ambasciata del Belgio, il cui regime coloniale era sospettato di complicità nell’omicidio del leader indipendentista congolese.

D’altro canto, l’internazionalismo del Movimento dei Non Allineati era un riflesso in politica estera dell’autonomia socialista jugoslava, che internamente si incardinò sull’autogestione, e produsse amicizie e alleanze trasversali dall’America Latina all’Indo-Pacifico, passando per Africa e Medio Oriente.

Il nobile decaduto delle relazioni internazionali

Quando nel settembre del 1989 Belgrado fa nuovamente gli onori di casa per la nona edizione del summit, il mondo, l’Europa e la Jugoslavia stessa stanno profondamente cambiando. Due mesi dopo crolla il muro di Berlino, e, a due anni di distanza, anche la Federazione jugoslava. Il mondo non è più diviso in due. E nei Balcani torna l’incubo dell’etnonazionalismo.

Vengono così meno lo spirito e i principi fondativi dei Non Allineati. L’importanza diplomatica del gruppo, che nel frattempo arriva a contare 120 paesi, cessa di fatto di esistere, se non in funzione celebrativa e commemorativa. In fin dei conti, il Movimento dei Non Allineati aveva un solo scopo: dimostrare che durante la Guerra fredda un altro modo di fare politica internazionale era possibile.

La capitale serba ha ospitato un’altra edizione del summit nel 2011, ma anche da allora Belgrado e la Serbia sono cambiate radicalmente. A ospitare la conferenza di oggi è un paese che ha perso quella leadership –ufficialmente, la Serbia e gli altri ex della Jugoslavia figurano come paesi osservatori – e che pare la brutta copia dell’originale, un sequel malriuscito in cui fanno la passerella diplomatici strappati alla delinquenza. Oggi il summit, dove l’ospite d’onore è Sergej Lavrov, non è più un ponte tra est e ovest, e non è più animato dagli ideali di libertà e uguaglianza.

Ma forse è giusto così, perché questo movimento ha smesso di esistere tempo fa, e la sua attuale attività non dà nessun contributo alla distensione dei rapporti internazionali. Ricorda quei club di nostalgici o eredi di nobili decaduti che si riuniscono solo per commemorare i bei tempi.

Nella foto (Historical Archives of Belgrade, CC BY-SA 3.0), il Maresciallo Tito accoglie il presidente ghanese Kwame Nkrumah

Chi è Giorgio Fruscione

Giorgio Fruscione è Research Fellow e publications editor presso ISPI. Ha collaborato con EastWest, Balkan Insight, Il Venerdì di Repubblica, Domani, il Tascabile occupandosi di Balcani, dove ha vissuto per anni lavorando come giornalista freelance. È tra gli autori di “Capire i Balcani occidentali” (Bottega Errante Editore, 2021) e ha firmato due studi, “Pandemic in the Balkans” e “The Balkans. Old, new instabilities”, pubblicati per ISPI. È presidente dell’Associazione Most-East Journal.

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