KAZAKHSTAN: Il coraggio di uscire dall’incubo nucleare

Secondo Tuleutaj Suleimenov la scelta di chiudere il poligono nucleare di Semipalatinsk fu fondamentale per creare le basi del Kazakhstan indipendente, un atto fondante dunque. Non un’opinione qualunque, questa, visto che a pronunciarla – in un’intervista di pochi giorni fa ad Agenzia Nova – è colui che all’epoca dei fatti era il ministro degli esteri kazako. E nemmeno un riferimento qualsiasi, dato che il poligono in questione fu il più grande sito atomico dell’Unione Sovietica.

Sono passati 30 anni esatti da quella decisione, era il 29 agosto del 1991: a prenderla fu Nursultan Nazarbaev, presidente di quel Kazakhstan che, solo pochi mesi dopo (dicembre), dichiarò la propria indipendenza dalla moribonda Unione Sovietica.

Il poligono nucleare di Semipalatinsk

Esteso su una superficie superiore a quella del Veneto, il poligono di Semipalatinsk fu inaugurato nel 1949 nell’ambito della corsa agli armamenti nucleari, elemento caratterizzante dei decenni del secondo dopo guerra: quelli dei blocchi contrapposti e della guerra fredda. Fu Stalin in persona, nel 1943, a ordinare di intraprendere il programma nucleare per lo sviluppo della bomba atomica affidandolo al fisico nucleare, Igor Kurchatov, poco più che quarantenne: fu così che il Kazakhstan divenne il centro per la sperimentazione delle armi nucleari sovietiche.

Alla prima bomba atomica del 1949, denominata pervaja molnija (primo lampo) – le cui radiazioni raggiunsero anche gli Stati Uniti costringendo il presidente americano, Harry Truman, a dichiarare finito il monopolio statunitense – seguirono altre centinaia di prove: 456, per la precisione, un quarto di tutte quelle eseguite su scala mondiale, inclusi il primo test su una bomba termonucleare (1953) – venticinque volte più potente di quella di Hiroshima – e quello su un ordigno all’idrogeno (1955). Le prime bombe furono sganciate dagli aerei per valutarne gli effetti dell’impatto al suolo; quelli sugli esseri viventi venivano studiati sugli animali, soprattutto sui maiali. Solo dal 1963, quando fu del tutto evidente che il vento – tipico della zona – era in grado di spingere le radiazioni ben oltre i limiti del poligono, si iniziò con le esplosioni sotterranee.

Per certi versi l’area scelta per la creazione del poligono aveva caratteristiche ideali allo scopo: ubicata nell’estremo oriente del paese, morfologicamente piatta, l’area era costituita dalla tipica steppa kazaka e non aveva città di rilievo, al punto che ne fu costruita una ex-novo – chiamata Kurchatov in omaggio al fisico a capo del programma nucleare – per ospitare i tecnici e le famiglie impegnati nel progetto. Per farlo furono impiegati 15 mila internati dei gulag sovietici. Per decenni, fintanto che il poligono è stato attivo, la città di Kurchatov (altrimenti nota come Semipalatinsk-21) era una città che non esisteva: non indicata nelle mappe, era conosciuta soltanto dai suoi abitanti. Una città chiusa e inaccessibile dall’esterno – ZATO secondo l’acronimo russo – una delle decine che furono fondate in Unione Sovietica dopo il 1940 (due in territorio kazako), che si è rapidamente spopolata dopo il 1991, passando dai 40 mila abitanti, degli anni del programma, ai 12 mila attuali.

Le conseguenze sulla popolazione

Il fatto che non vi fossero città principali, tuttavia, non significava che la zona fosse completamente disabitata, anzi: disseminati in piccoli villaggi rurali vivevano centinaia di migliaia di persone che non solo non furono mai evacuate durante i test, ma che furono anche tenute completamente all’oscuro di quanto accadeva sulle proprie teste.

Ma non è tutto: tracce di contaminazione nucleare sono state rilevate su un’area venti volte superiore a quella del poligono e città come Semej, posta a un centinaio di chilometri da esso, furono regolarmente travolte dai venti nucleari. I trecentomila abitanti di Semej (e i 40 mila della stessa Kurchatov), tuttavia, non sono le sole vittime di questa tragedia: stime attendibili riferiscono di oltre un milione e mezzo di persone coinvolte. Un effetto, peraltro, che secondo studi recenti, si estende anche alle generazioni successive a quelle direttamente colpite, dove si registra un aumento di casi di malformazioni genetiche, malattie mentali, cancro e ipertensione e dove l’incidenza della leucemia è superiore del 15% rispetto a quella del resto del paese. E un effetto che coinvolge anche l’ambiente con la contaminazione da plutonio, cesio e uranio arricchito della terra e delle acque che, secondo i calcoli degli scienziati, perdureranno per altri 24 mila anni in un’area dove, tuttora, abitano oltre 200 mila persone. Un problema che le autorità kazake stanno cercando di gestire con un programma di decontaminazione del territorio guidato dal Centro Nucleare Kazako che ha sede proprio a Kurchatov.

La pesante eredità, il Kazakhstan protagonista per la denuclearizzazione

Con la fine dell’URSS il Kazakhstan “ereditò” oltre 1400 testate nucleari, rendendolo il quarto paese al mondo per arsenale atomico. Una questione che fu subito risolta stringendo un patto con la Federazione Russa per il loro trasferimento, primo paese al mondo a rinunciare volontariamente al proprio armamentario atomico. Solo il primo tassello di quel programma di denuclearizzazione fortemente voluto e tenacemente portato avanti da Nazarbayev che, non solo ha portato il paese a disattivare le proprie centrali nucleari ma che, a livello internazionale, lo ha visto in prima linea nella lotta per la moratoria dei test nucleari.

Al punto che è stato proprio su proposta di Nazarbayev che l’Assemblea Generale dell’ONU ha istituito “la Giornata Internazionale contro i test nucleari” proprio il 29 agosto, data della chiusura del sito di Semipalatinsk. Una proattività che ha permesso a Nazarbayev di essere insignito dello status di “Leader per un mondo senza test nucleari” dalla stessa assemblea.

I test del poligono di Semipalatinsk sono stati una tragedia. Una tragedia, però, che il Kazakhstan ha saputo trasformare facendo della lotta al disarmo nucleare una componente essenziale della propria identità nazionale.

Foto: Unsplash.com

Chi è Pietro Aleotti

Milanese per caso, errabondo per natura, è attualmente basato in Kazakhstan. Svariati articoli su temi ambientali, pubblicati in tutto il mondo. Collabora con East Journal da Ottobre 2018 per la redazione Balcani ma di Balcani ha scritto anche per Limes, l’Espresso e Left. E’ anche autore per il teatro: il suo monologo “Bosnia e il rinoceronte di pezza” ha vinto il premio l’Edizione 2018 ed è arrivato secondo alla XVI edizione del Premio Letterario Internazionale Lago Gerundo. Nel 2019 il suo racconto "La colazione di Alima" è stato finalista e menzione speciale al "Premio Internazionale Quasimodo". Nel 2021 il racconto "Resta, Alima - il racconto di un anno" è stato menzione di merito al Premio Internazionale Michelangelo Buonarroti.

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